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Trump si è fissato col monte Rushmore. Ecco tutto quello che può andare male

Stefano Pistolini

L’idea di passare la vigilia della festa dell’Indipendenza sotto la montagna dei presidenti, con tanto di discorso, raduno e spettacolo pirotecnico è inscrivibile ai più irritanti exploit trumpiani

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Roma. C’è da chiedersi dove Trump voglia andare a parare, con l’ennesima bravata. Ovvero se il gesto è frutto di una condotta caotica a fronte dei disastri allestiti dalle ultime strategie (i discorsi farneticanti, le baruffe nelle conferenze stampa, il fiasco di Tulsa), o se annunci un posizionamento disperato in vista del rush della corsa elettorale, presupponendo una collocazione ormai lontana anche dal mainstream di un Partito repubblicano che non lo riconosce più. Perché l’idea di passare la vigilia del 4 luglio, la festa dell’Indipendenza, a Rushmore, la montagna dei presidenti, con tanto di discorso, raduno di fedelissimi e famigerato spettacolo pirotecnico – resuscitando una tradizione interrotta nel 2009 – è inscrivibile ai più irritanti exploit trumpiani.

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Roma. C’è da chiedersi dove Trump voglia andare a parare, con l’ennesima bravata. Ovvero se il gesto è frutto di una condotta caotica a fronte dei disastri allestiti dalle ultime strategie (i discorsi farneticanti, le baruffe nelle conferenze stampa, il fiasco di Tulsa), o se annunci un posizionamento disperato in vista del rush della corsa elettorale, presupponendo una collocazione ormai lontana anche dal mainstream di un Partito repubblicano che non lo riconosce più. Perché l’idea di passare la vigilia del 4 luglio, la festa dell’Indipendenza, a Rushmore, la montagna dei presidenti, con tanto di discorso, raduno di fedelissimi e famigerato spettacolo pirotecnico – resuscitando una tradizione interrotta nel 2009 – è inscrivibile ai più irritanti exploit trumpiani.

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Da un lato ci sono le polemiche quasi di routine: i rischi di un assembramento di 7.500 invitati (biglietti assegnati tramite lotteria, se gli hacker non ci avranno messo lo zampino anche stavolta), con le normative anti-Covid ignorate e la governatrice del South Dakota, la repubblicana Kristi Noem, che veste i panni dell’oltranzista dell’autodeterminazione: “Chi è preoccupato stia a casa. Per chi verrà, libertà d’indossare la mascherina, ma nessun distanziamento sociale”. In South Dakota non sono mai stati assunti provvedimenti restrittivi: niente lockdown, tutto demandato alla responsabilità del singolo, in puro stile vecchia frontiera. Si può poi perfino sorvolare sui pericoli ambientali, in barba agli appelli diffusi dagli esperti in incendi e dai pompieri locali: “Le Black Hill in questo periodo dell’anno sono una scatola di fiammiferi”, fanno sapere, ricordando i 27 incendi scoppiati nelle foreste attorno a Rushmore durante le vecchie edizioni dello show. Pare che Trump avesse in testa l’idea già da un paio d’anni e che a margine di un colloquio con la Noem abbia affrontato la faccenda a modo suo: un paio di telefonate e ordinanze del Servizio dei parchi nazionali bypassate, e fine della proibizione, “per celebrare degnamente lo spirito dell’Indipendenza”. Il fatto è che quel posto gli piace, scatena la sua fantasia, memore delle immagini hitchcockiane di “Intrigo Internazionale” con Cary Grant in azione sulle rocce su cui sono scolpiti i volti di Lincoln, Washington, Jefferson e Theo Roosevelt. La Noem rivela un retroscena: “Gli ho detto: venga a trovarci in South Dakota, c’è Rushmore! E lui: sa che uno dei miei sogni è avere la faccia su quella montagna? Io risi. Ma lui era serissimo”. Fin qui cronaca trumpiana di crociera. Ma la provocazione potrebbe andare oltre e assumere significati più destabilizzanti.

   

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Di nuovo, visibile e assai di traverso in questo episodio, riaffiora la questione razziale. Altra minoranza, altra offesa non rimarginata, altra macchia causata dallo spirito di supremazia bianca che innerva la nascita della nazione. Questa volta tocca ai nativi: il monte Rushmore sorge nella terra il cui controllo il governo concesse alla Nazione indiana coi trattati perpetui del 1851 e 1868, traditi durante la corsa all’oro, ma riconfermati dalla Corte Suprema nel 1980, dichiarando illegale ogni irruzione non autorizzata nella riserva. Orso Che Corre, presidente delle tribù Sioux Oglala, sta disseppellendo l’ascia di guerra: “Trump non ha chiesto il permesso di entrare nel territorio. E ha l’obbligo di farlo, per onorare i trattati”. Qual è la mossa di Trump? Attestarsi su posizioni reazionarie nella questione razziale, contando di sedurre quella maggioranza silenziosa bianca i cui numeri sono un mistero? Aprire la stagione dei distinguo razziali, in risposta a quello che ormai bolla come disordine sociale? Il tutto in un momento di massima tensione tra le autorità del South Dakota e i nativi, intenzionati a isolare le riserve per contenere la penetrazione del Covid, come accaduto in altri territori controllati dalle tribù. Ci sono posti di blocco alle entrate delle riserve e le pressioni della governatrice per la rimozione sono state ignorate. Proprio mentre gli attivisti Cheyenne-Sioux denunciavano la complicità tra Casa Bianca e governo dello stato, è arrivato l’annuncio dell’evento del 3 luglio. Ci sarà un’escalation di mobilitazione. I nativi si dicono offesi dall’ingerenza e dall’atteggiamento sacrilego di Washington. A loro quelle facce scolpite non piacciono, appartengono a schiavisti o, nel caso di Lincoln, a chi fece impiccare 38 guerrieri durante la guerra indiana del 1862. Non si accettano nuove umiliazioni. Quella montagna che loro chiamano il Santuario dell’ipocrisia, non potrà essere abbattuta come una statua, ma difesa e riconquistata, sì.

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