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La Warren si ritira, perché non lo ha fatto prima? Gli errori di Sanders

Paola Peduzzi

Si può guidare un partito trattando il partito come fosse un nemico? 

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Milano. Dalle parti di Bernie Sanders ci sono molti musi lunghi e molta rabbia. Il SuperTuesday è stato una delusione, le stelle si sono allineate sopra al rivale Joe Biden, assieme ai soldi, all’establishment, ai mercati, al vento che porta alla nomination. Il cambiamento è stato repentino, e nonostante la vittoria di Sanders in California, che come si sa è un gran bottino (ma si sta ancora contando il numero effettivo di delegati assegnati e intanto è stato dichiarato lo stato d’emergenza per il coronavirus), quel che sembrava inevitabile ora non lo è più. Sanders ha detto al suo staff di essere “molto deluso”, racconta il New York Times, e ai giornalisti presenti al suo quartier generale a Burlington, in Vermont, ha fatto una domanda e si è dato la risposta: “Siamo stati bravi a portare, come speravo, molti giovani a votare? No”. Il punto dolente della strategia di Sanders è tutto qui: la mobilitazione annunciata non c’è stata e anzi, beffa ultima, in alcuni stati come il Texas c’è sì stata, ma a favore di Joe Biden e trainata dall’elettorato afroamericano che, come si sa, sostiene l’ex vicepresidente. Sanders ha sempre detto: grande affluenza vuol dire per me grande vittoria. Ma l’equazione non si è rivelata corretta. Sanders se l’è presa trumpianamente con i “corporate media” che raccontano soltanto le sue debolezze o il suo radicalismo e il suo essere un corpo troppo estraneo rispetto alla sua famiglia politica. Per alcuni – come per la deputata del Minnesota Ilhan Omar – il problema invece si chiama Elizabeth Warren, che è rimasta in gara troppo a lungo e così ha indebolito la coalizione dei radicali. La Warren ieri si è ritirata dalla corsa dopo i risultati deludenti persino nel suo Massachusetts (e nonostante le speranze coltivate a novembre e dicembre, nelle interminabili file per i selfie) e senza dare l’endorsement a Sanders. I dati dimostrano che quel che la Warren ha rosicchiato a Sanders (sempre ammesso che chi ha votato la prima passi automaticamente con il secondo) non compensa lo scarto con Biden. 

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Milano. Dalle parti di Bernie Sanders ci sono molti musi lunghi e molta rabbia. Il SuperTuesday è stato una delusione, le stelle si sono allineate sopra al rivale Joe Biden, assieme ai soldi, all’establishment, ai mercati, al vento che porta alla nomination. Il cambiamento è stato repentino, e nonostante la vittoria di Sanders in California, che come si sa è un gran bottino (ma si sta ancora contando il numero effettivo di delegati assegnati e intanto è stato dichiarato lo stato d’emergenza per il coronavirus), quel che sembrava inevitabile ora non lo è più. Sanders ha detto al suo staff di essere “molto deluso”, racconta il New York Times, e ai giornalisti presenti al suo quartier generale a Burlington, in Vermont, ha fatto una domanda e si è dato la risposta: “Siamo stati bravi a portare, come speravo, molti giovani a votare? No”. Il punto dolente della strategia di Sanders è tutto qui: la mobilitazione annunciata non c’è stata e anzi, beffa ultima, in alcuni stati come il Texas c’è sì stata, ma a favore di Joe Biden e trainata dall’elettorato afroamericano che, come si sa, sostiene l’ex vicepresidente. Sanders ha sempre detto: grande affluenza vuol dire per me grande vittoria. Ma l’equazione non si è rivelata corretta. Sanders se l’è presa trumpianamente con i “corporate media” che raccontano soltanto le sue debolezze o il suo radicalismo e il suo essere un corpo troppo estraneo rispetto alla sua famiglia politica. Per alcuni – come per la deputata del Minnesota Ilhan Omar – il problema invece si chiama Elizabeth Warren, che è rimasta in gara troppo a lungo e così ha indebolito la coalizione dei radicali. La Warren ieri si è ritirata dalla corsa dopo i risultati deludenti persino nel suo Massachusetts (e nonostante le speranze coltivate a novembre e dicembre, nelle interminabili file per i selfie) e senza dare l’endorsement a Sanders. I dati dimostrano che quel che la Warren ha rosicchiato a Sanders (sempre ammesso che chi ha votato la prima passi automaticamente con il secondo) non compensa lo scarto con Biden. 

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Il problema sembra più profondo – l’offerta di un cambiamento troppo radicale – visto che anche le candidate “coraggiose” sostenute da Alexandria Ocasio-Cortez, la star dell’ala radicale del Partito democratico sempre presente nella campagna di Sanders, non hanno avuto il successo sperato. Forse lo slancio verso sinistra si è raffreddato?

 

Intanto ora c’è una nuova chiarezza nella corsa democratica: nel giro di pochi giorni, è diventata una sfida a due. Sanders ha iniziato a declinare la sua campagna elettorale contro Biden: siamo molto diversi, ha detto il senatore del Vermont da Rachel Maddow su Msnbc, spero che ci sarà modo di farlo capire bene, e gli elettori del Michigan (dove si vota la settimana prossima) sappiano che gli accordi di libero scambio tanto cari a Biden sono la causa del loro impoverimento. Gli spot per le prossime giornate elettorali del 10 e 17 marzo prodotti dalla campagna di Sanders sono tutti contro Biden, contro il suo sostegno alla guerra in Iraq, ai “bailout disastrosi” di Wall Street, ai trattati di libero scambio. Due democratici molto diversi. La campagna di Sanders, che teme un eccessivo isolamento del suo candidato, sta cercando anche di dimostrare che l’ex presidente Barack Obama non gli è ostile (tutti intanto raccontano le manovre di Obama per allineare le stelle di Biden): c’è uno spot in cui l’ex presidente dice di ammirare “l’autenticità, la grande passione e l’assenza di paura” di Sanders. L’obiettivo della campagna elettorale del senatore del Vermont ora è quello di parlare a tutto l’elettorato democratico, il cosiddetto “democratico mainstream”, di allargare la base visto che la mobilitazione prettamente sandersiana non c’è stata. Alcuni sostengono che Sanders non sia d’accordo: è sempre stato refrattario a modificare il suo posizionamento, è convinto che proprio la coerenza radicale pure in antagonismo con buona parte del partito sia il suo punto di forza. Sono diverso dagli altri, ha sempre detto Sanders, e ora non può dire una cosa troppo diversa. Per alcuni proprio gli spot con Obama sono un segnale di debolezza, “l’ammissione del fallimento”, dice Perry Bacon, che fa parte del team di Nate Silver (FiveThirtyEight): “Non era allora meglio fare pubblicità ‘Obama mi ama’ prima del SuperTuesday, quando c’erano gli stati del sud da conquistare?”. Strategicamente questo è un punto decisivo: Sanders vuole essere il candidato outsider, la novità dentro a un partito cristallizzato attorno a un establishment moderato, ma in questo modo non riesce a creare una coalizione che lo sostenga dentro al Partito democratico. Come ha scritto Ezra Klein su Vox: “Il senatore del Vermont non può guidare i democratici se tratta i democratici come i suoi nemici”. Per guidare un partito bisogna saper convincere anche i propri compagni di essere in grado di scendere a compromessi, di voler trovare una sintesi, non di voler trascinare tutti, per i capelli se necessario, sul proprio terreno. E mentre incominciano i calcoli per i prossimi appuntamenti, con il terrore del logoramento lungo della contesa, qualcuno dice: più che arrabbiarsi con tutti, Sanders dovrebbe chiedersi com’è che non è riuscito a convincere nemmeno una “vicina” come la Warren a farsi da parte prima né a dargli l’endorsement.

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