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Ma chi lo batte Trump?

Il gran ritorno di Joe Biden, la grande rabbia di Bernie Sanders, la strada per arrivare alla Casa Bianca. Chi va più veloce e quanto è stretta la via nel nostro girotondo di opinioni

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Abbiamo chiesto ai giornalisti del Foglio che raccontano l’America su queste pagine e ad altri commentatori che cosa pensano di Joe Biden, di Bernie Sanders e del candidato migliore per battere Donald Trump. Delusi, speranzosi, calcolatori, irredimibili: ci sono tutti. Ci scusiamo con tutti quelli che non hanno trovato posto oggi nel nostro girotondo: ci risentiamo nei duecentoquarantaquattro giorni che mancano all’Election Day di novembre, promesso (e voleranno, lo sappiamo già).

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Interventi di:

Christian Rocca

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Francesco Costa

Daniele Raineri

Marilisa Palumbo

Mattia Ferraresi

Giuseppe De Bellis

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Stefano Pistolini

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Stefano Sensi

I democratici dicono: no Sanders

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di Christian Rocca, direttore di Linkiesta (testo raccolto)

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Donald Trump è al tempo stesso fortissimo e debolissimo. L’economia americana funziona, i democratici finora hanno dato poca prova di sé: questo fa pensare a una sua rielezione. Però poi Trump è Trump, e questa è la sua debolezza irrisolvibile: è possibile che possa essere battuto dal primo che passa. Lui stesso non sa chi temere come sfidante. La base e il consenso di Trump sono molto volatili, mentre la mobilitazione di Bernie Sanders – i giovani BernieBros – è molto vera e concreta: poi certo, la paura del socialista è facile da aizzare, i trumpiani hanno già cominciato. Joe Biden – che per me è il candidato migliore per battere Trump – è solido, sta dimostrando di essere in grado di creare una coalizione di elettori per riprendere gli stati che Hillary Clinton perse nel 2016, e la promessa sandersiana di riprendere la “middle class dimenticata” che ha votato Trump non si sta realizzando. Ma allo stesso tempo Joe Biden dà alcune armi retoriche a Trump: quella che il presidente già utilizza molto, cioè la noia, “Sleepy Joe”, e quella della campagna antiestablishment molto cara ai trumpiani (che con Sanders non funzionerebbe). Ma nel Partito democratico sta avvenendo quello che non accadde nel 2016 nel Partito repubblicano. Allora, di fronte all’opa ostile di Trump, i repubblicani non riuscirono a unirsi attorno al loro candidato, che era Jeb Bush. I democratici invece si stanno raccogliendo attorno a Biden: Sanders sta prendendo meno voti di quelli che conquistò alle primarie di quattro anni fa, sei/sette elettori democratici su dieci stanno dicendo: no Sanders. Mica pochi. Perché? Perché i toni di Sanders sono urticanti, perché non è nemmeno un democratico e perché nel 2016 ha contribuito alla sconfitta di Hillary.

Il primo tassello dell’unità è Biden

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di Francesco Costa, vicedirettore del Post

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La paralisi degli elettori del Partito democratico, terrorizzati dal rischio di scegliere il candidato sbagliato in quella che tutti considerano l’elezione più importante delle loro vite, si è sbloccata fragorosamente quando in tre giorni Joe Biden ha prima stravinto le primarie in Carolina del sud e poi ha portato sul palco con sé Pete Buttigieg, Amy Klobuchar e Beto O’Rourke, mentre Bernie Sanders arretrava anche rispetto al 2016 e riusciva a farsi detestare persino da Elizabeth Warren, compagna di tante battaglie. E’ quindi Joe Biden l’uomo giusto per battere Trump? Va’ a sapere. Alcuni nel partito pensano che chiunque possa battere Trump, visto com’è andata nel 2016. O almeno chiunque si degni di fare un paio di comizi in Wisconsin, riesca a non finire sotto indagine dell’Fbi, non si faccia fregare le email dal governo russo e non sia l’incarnazione assoluta del potere: chiunque non sia Hillary Clinton, insomma. Anzi, per dirla meglio: chiunque riesca a prendere qualche voto in più dei pur tanti – molti più di Trump! – che Hillary Clinton prese nel 2016, pur essendo lei Hillary Clinton, e arrivando tutti da otto anni di governo dei democratici alla Casa Bianca. Facile. Certo che si sono candidati in trecentocinquanta. Poi ci sono quelli per cui nessuno può battere Trump. L’economia galoppa, il tasso di disoccupazione è irrilevante, gli immigrati non passano più, il Russiagate e l’impeachment sono stati un fallimento, gli americani hanno già perdonato a Trump qualsiasi cosa – che forma dovrebbe avere uno “scandalo” per colpirlo davvero? – e soprattutto i candidati democratici hanno troppi difetti. Uno è troppo vecchio, l’altro è troppo giovane, quello lì è rimbambito, quella sa far suonare un solo disco e quell’altra è una noia mortale: se vincessero le primarie, tutti si lascerebbero indietro dei pezzi del partito durante la campagna. Le due anime in conflitto nel Partito democratico sono queste, più di radicali contro moderati. Ci vorrebbe Obama, per tenere un piede in tre scarpe e battere Trump: un’identità energica e nuova, un messaggio populista e un programma pragmatico. Ma non c’è: dovranno provare a comporlo, un tassello per volta. Il primo è Joe Biden.

Contro l’estremismo c’è solo Biden

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di Daniele Raineri

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Il candidato più forte per battere Trump è Joe Biden perché è quello che Trump teme di più. Tendiamo a dimenticarlo, ma il presidente s’è tirato addosso un impeachment perché ha sospeso gli aiuti militari a un paese in guerra contro la Russia, l’Ucraina, nel tentativo fallito di distruggere la candidatura di Biden alle elezioni presidenziali. Se Trump aveva così tanta paura di “Sleepy Joe” come sfidante da rischiare di farsi cacciare dalla Casa Bianca – cosa che poi non è successa soltanto perché ha la maggioranza al Senato – avrà fatto le sue buone valutazioni. I duelli dentro i democratici e le presidenziali sono interessanti per un’altra ragione più generale: che direzione prenderà il mondo dopo questi anni di estremismi, di Brexit, di trumpismi, di terrapiattismi, di fake news, di Califfati falliti? Ci sono due possibili risposte. Una è che consideriamo quello che è successo come un’aberrazione temporanea, che sarà corretta nei prossimi anni dalla realtà. Si torna alla normalità. Un po’ come i grillini che volevano la maggioranza assoluta per governare e ora galleggiano al dieci per cento, un po’ come i fanatici che volevano creare un Califfato potentissimo in medio oriente e ora sono di nuovo latitanti, forse c’è una tendenza del pianeta a rientrare nei ranghi dopo gli anni del carnevale. Oppure, ed è la seconda risposta, ormai gli schemi si sono rotti per sempre, non si torna indietro, il disordine è irrimediabile ed è meglio abituarsi a quello che gli americani chiamano il “new normal”: una situazione che ci sembrava pazzesca fino a ieri e oggi ci sembra perfettamente sensata (come salire su un treno e vedere persone con la mascherina). Ecco, Biden come si sarà capito è il campione della vecchia normalità, quella dove il presidente non sculaccia una pornostar con una copia del Time con il suo volto sopra (vedete il new normal? Questa storia che definirebbe una qualsiasi altra presidenza è già finita nel dimenticatoio). E’ l’usato sicuro, è il ritorno agli standard che conosciamo, è la faccia dell’anti distopia. Sanders e Trump sono qui per dirci che tornare indietro è impossibile.

Segnatevi questa parola: “decency”

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di Marilisa Palumbo, giornalista del Corriere della Sera (testo raccolto)

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Siamo tutti spaventati dalle previsioni, e in un mondo ideale non avremmo mai voluto vedere nel 2020 due uomini bianchi ultrasettantenni che si contendono la Casa Bianca, ma Joe Biden mi sembra il candidato giusto per provare a battere Trump. Non è soltanto una questione di matematica elettorale, che naturalmente c’è, è più una questione umana. Non mi ha mai convinto l’idea che il miliardario Bloomberg potesse battere il miliardario Trump. Così come non mi convince l’idea che un populista arrabbiato come Sanders possa battere un altro populista arrabbiato come Trump. Di Biden mi ha sempre preoccupato la stanchezza: nella prima fase delle primarie sembrava quasi stufo, oltre che poco efficace. Ma lo hai visto dopo la Carolina del sud? È ringiovanito di dieci anni! E la parola chiave, parlando di Biden, mi sembra “decency”: nessuno parla dei suoi programmi, tutti parlano della dignità, del buon senso di Biden. Forse è questo che gli elettori americani vanno cercando, un’alternativa umana a Trump. Per quanto sia un leader imperfetto – le gaffe di Biden sono leggenda – l’ex vicepresidente sta puntando sulla storia umana incredibile, che tutti conoscono e che lo rende molto più vicino e presente rispetto agli altri. Biden ama il popolo, Trump corteggia il popolo, lo avvicina e lo allontana a seconda delle sue esigenze, e questa differenza ora si vede. E forse peserà più del ripristino – indispensabile – della coalizione obamiana.

Solo Sanders può battere Trump

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di Mattia Ferraresi

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È più probabile che Bernie Sanders sia il candidato meglio piazzato per battere Donald Trump a novembre. Uso qui il termine “probabile” in un senso più affine a Blaise Pascal che a Nate Silver: la strada dell’establishment moderato i democratici l’hanno già percorsa quattro anni fa, con gli esiti che sappiamo, e allora conviene scommettere sull’alternativa per non lasciare nulla di intentato. Se Sanders vince, avrà ottenuto il risultato non proprio trascurabile di cacciare Trump dalla Casa Bianca, e poi sarà compito della sinistra – dai neosocialisti ai centristi – trovare, se mai sia possibile, la quadratura del cerchio ideologico. Se Sanders perde, i democratici non potranno rimproverarsi di non averci provato, a battere Trump, nei due modi che la sinistra è stata in grado di concepire in questa fase storica. Lo scenario opposto promette conseguenze peggiori nel caso finisca male per i democratici. Se Biden conquista la nomination e vince contro Trump, festa grande per i dem: gli ultimi anni sono stati un baco nella democrazia liberale, l’errore è stato sistemato, gli elettori hanno capito e si torna al paradigma precedente. Ma se Biden corre e perde sarà la sconfitta di un intero sistema, di una tradizione politica, di un impianto ideologico, qualcosa di difficilmente sanabile, aggravato ovviamente dalle ire a quel punto incontenibili dei radicali, che lamenteranno di essere stati depredati due volte. E’ la strada maestra per portare il partito a una condizione simile a quella in cui si è trovato il Partito repubblicano nel 2015-16. Presentato così, è un problema di gestione del rischio, calcolo che non pertiene soltanto alle compagnie assicurative ma anche alla politica. Si dirà: Biden non è Hillary, non ripeterà gli stessi errori, si andrà a prendere i voti in Michigan e in Pennsylvania, mobiliterà gli afro-americani per davvero e via dicendo. Questa ipotesi ha un senso, però, se quattro anni fa si è verificato per i democratici un problema di natura tattica e gestionale. Se invece è stato il sintomo di qualcosa di più profondo, che ha a che fare con l’indebolimento del sistema liberale, aggredito da destra e da sinistra, allora Biden si è di fatto candidato già quattro anni fa, e ha perso. Meglio scommettere su Bernie.

Chi può battere Trump è Trump

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di Giuseppe De Bellis, direttore di SkyTg24

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A oggi chi può battere Donald Trump è Donald Trump. Molti dei sondaggi nazionali vedono il presidente in carica potenzialmente sconfitto sia da Bernie Sanders, sia da Joe Biden. Eppure, visto ciò che è accaduto quattro anni fa, nessuno a oggi li tiene in conto, non si capisce bene se per scaramanzia, per sfiducia o semplicemente proprio per il precedente del 2016. I numeri relativi non al confronto con questo o quel candidato, ma al gradimento del presidente sono confortanti per lui: dopo la vittoria in Senato sull’impeachment il suo gradimento ha toccato i massimi da un anno, l’economia americana, prima dell’arrivo del coronavirus e dei suoi potenziali effetti sui mercati, continuava ad andare molto bene. C’è poi la guerra interna al Partito democratico che rischia di essere un involontario assist: se si dovesse andare incontro a una broken convention, cioè con l’arrivo a Milwaukee dei delegati dem con una situazione di incertezza sulla nomination, vorrà dire che Trump avrà goduto di altri 3-4 mesi di campagna solitaria, da presidente in carica, mentre Biden e Sanders saranno stati impegnati a cercare di sconfiggersi senza vedere l’avversario vero. Biden ha potenzialmente e sulla carta più chance di battere Trump di quante ne abbia Sanders. Però con entrambi, Trump parte da favorito, al netto di errori possibili o fattori esterni che intralcino il suo percorso (esempio: una cattiva gestione di un’eventuale crisi da coronavirus). Con una variabile, in più. Una variabile che vale sia nella corsa per la nomination sia nella sfida delle presidenziali: il duello generazionale. Per la prima volta negli ultimi i 25 anni, i baby boomer non saranno la maggioranza degli elettori. E la generazione Z (18-23 anni) avrà una potenziale quota di elettori che per la prima volta supera il 10 dieci per cento. I boomer sono trumpiani e nel campo democratico bideniani. La Gen Z è sanderiana e in subordine bideniana. Di questo 10 per cento più della metà appartiene a una minoranza etnica (ispanici, afroamericani, asiatici). Dalla mobilitazione di questi passa il pericolo principale per Trump.

Che girone di qualificazione disastroso

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di Stefano Pistolini

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78-77. La combinazione delle prossime presidenziali americane sta tutta lì. Sulla ruota del bianco fisso, senza sfumature. Due uomini (e per un po’ ancora una donna: 70) al rettifilo della nomination democratica, portando sulle spalle il peso di un’età e di un’interminabile presenza sulla scena pubblica d’oltreoceano, corredando il tutto con un’offerta programmatica che, se non suona ambiziosamente teorica (Sanders), è ricoperta dalla polvere degli infiniti compromessi della real politik. Il girone di qualificazione per giocarsi la posta che conta è stato disastroso: le vigenti, ferree regole di comunicazione a pagamento, a beneficio di un elettorato impigrito da scuotere con lo slogan buono, hanno decimato le facce nuove e ogni possibilità di spedire alla Casa Bianca una rappresentatività post baby boomer. Sono rimasti i due anziani, ciascuno capace di scaldare una fetta piuttosto magra dell’audience americana, lasciando freddo il resto della platea. I radical, i liberal, i tecnici. Difficile che bastino per contrastare la corazzata propagandistica di Trump e il suo ruvido pragmatismo. Sanders fa venire i nervi a chi nel 2020 non culli improbabili sogni di un’“altra America”, Biden deve rianimare ciò che resta dell’ipotesi obamiana. Nessuno dei due raccoglie particolari simpatie nelle minoranze. Difficile puntarci un dollaro, se non ci fosse l’imprevedibile capacità di Trump di farsi lo sgambetto da solo. La corsa allo status quo è nelle sue mani: solo lui può perderla e questo è il risultato deprimente della colpevole apatia politica espressa da un’America progressista mai così poco convinta d’essere tale.

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La doppia risposta di Filippo Sensi, ex portavoce del governo oggi deputato del Pd, alla domanda di questo girotondo (ci aveva chiesto di sceglierne una, ma abbiamo deciso di pubblicarle entrambe)

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