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I piani di Boris Johnson per il post Brexit

Serena Sileoni

Oggi il Regno Unito esce dall’Unione europea. Ascesa e progetti futuri del premier britannico

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La scelta del Regno Unito di uscire dall’Unione europea è già storia compiuta. Anche se molto, sul piano attuativo, dovrà essere ancora realizzato, è un fatto storico che oggi il Regno Unito esce dall’Unione. Ed è un fatto che dà ragione a Boris Johnson, l’uomo e il politico che ha puntato la sua ascesa a Primo ministro sulla personale capacità di portare a compimento la Brexit, proprio quando agli altri, per primi ai suoi colleghi di partito, sembrava una missione impossibile.

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La scelta del Regno Unito di uscire dall’Unione europea è già storia compiuta. Anche se molto, sul piano attuativo, dovrà essere ancora realizzato, è un fatto storico che oggi il Regno Unito esce dall’Unione. Ed è un fatto che dà ragione a Boris Johnson, l’uomo e il politico che ha puntato la sua ascesa a Primo ministro sulla personale capacità di portare a compimento la Brexit, proprio quando agli altri, per primi ai suoi colleghi di partito, sembrava una missione impossibile.

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Che sia riuscito dove altri, da Corbyn alla May, non solo hanno fallito, ma si sono rotti le ossa, dipende anche dalla sua personalità, che somma preparazione politica, leadership ed estrosa capacità comunicativa ai limiti della spavalderia.

 

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L’esuberanza nei modi e, per molti, anche delle idee di Boris Johnson viene da lontano. Nato a New York da una famiglia britannica, ha potuto beneficiare della doppia cittadinanza, rinunciando poi a quella statunitense nel 2016. Cresciuto in una famiglia istruita, ha vissuto tra New York, Bruxelles e il Regno Unito e si è laureato in lettere classiche a Oxford dopo aver frequentato il prestigioso college di Eton. Affermatosi come giornalista, a 24 anni diventa corrispondente per gli affari europei da Bruxelles per The Daily Telegraph ai tempi della Guerra fredda. Lì si farà conoscere come euroscettico, quando ancora di euroscetticismo non si parlava nemmeno. Licenziato per falsa dichiarazione dal giornale, diventa direttore di Spectator, una pluricentenaria rivista inglese di politica e cultura orientata su idee conservatrici che, negli anni della sua direzione, raggiunge la tiratura record di 70.000 copie. Rimarrà lì fino al 2005, quando, dopo essere già stato eletto al Parlamento, si dedicherà a tempo pieno alla politica, prima come sindaco di Londra per due mandati, poi come Primo ministro. I tratti fisici e comportamentali, le smargiassate, la movimentata vita privata, l’accento oxbridge ne fanno un’icona di eccentricità, un po’ studiata un po’ innata, di sicuro volutamente enfatizzata. Sbaglia però chi pensa che sia semplicemente il rappresentante inglese del populismo. Una formazione politica e intellettuale di lungo corso, una professionalità indipendente rispetto all’impegno politico, una personale visione del mondo e della politica lo rendono molto distante da esempi nostrani di leader sovranisti e populisti. Il suo stesso disegno sovranista è ben lontano, ad esempio, da quello di Salvini. Ne è prova che il vigoroso perseguimento della Brexit è accompagnato, nel suo programma, da proposte di libero commercio con l’Europa che segnalano tutto fuorché una isolazionistica chiusura al mondo.

  

Per ora, il mandato di Johnson è stato un abito su misura: in Parlamento è stato uno dei più esposti politici pro-Brexit, la sua elezione come segretario del Partito è nata proprio per sostituire la pallida May con un leader energico che facesse sbiadire anche l’opposizione laburista.

  

Johnson sale quindi a capo di un governo molto fragile, ereditato dalla May e tenuto in vita solo grazie all’appoggio esterno di dieci deputati unionisti irlandesi, per portarvi il vigore necessario a concludere la Brexit. Da leader nerboruto, inizialmente prova a mettere alle strette la trasversale maggioranza contraria alla Brexit giocando carte istituzionali per controllare (e zittire) il Parlamento. Ma il Regno Unito è pur sempre, anche nei momenti più critici, la patria della negoziazione e della resilienza: sconfitto sia dalla maggioranza parlamentare sia dalle corti nel voler forzare le regole del gioco costituzionale, fino a vedersi dichiarare inesistente la prorogation e approvare invece la legge che avrebbe impedito al Regno Unito di praticare la sua idea di uscire senza accordo, Johnson ha perso le battaglie istituzionali. Ha vinto però quella politica. Azzardando il ricorso alle urne a dicembre, ha dimostrato ancora una volta di non essere un politico per caso né di avere solo doti di abile comunicatore (o un abile staff di comunicazione), ma di avere fiuto politico e strategia. La forte maggioranza ottenuta con le elezioni di dicembre gli ha garantito, finalmente, la legittimazione necessaria a portare a conclusione l’uscita dall’Ue, il motivo essenziale di esistenza del suo governo e il punto principale del suo programma. 

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C’è altro, però, al di là, della Brexit?

   

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C’è molto altro, in effetti, e lo si potrebbe dividere in due categorie. C’è innanzitutto quello che resta da fare dopo la Brexit a causa della Brexit: gli accordi di libero commercio, che potrebbero rendere Johnson un legittimo erede delle idee thatcheriane; e le magagne derivanti dai movimenti indipendentisti scozzesi, che si presume saranno più acuti proprio a causa della Brexit, così come quelle derivanti dall’Irlanda del Nord, il cui destino è stato il principale motivo di difficoltà dei negoziati con l’Europa.

 

Poi c’è tutto quello che resta da fare dopo la Brexit e a prescindere da essa. In questo, il programma elettorale di Johnson è tiepido: nulla di nuovo rispetto a una tradizionale to do list, senza strappi col passato e senza grandi idee. Controllo dell’immigrazione, sicurezza, investimenti pubblici, ambiente, ma anche impegno a non aumentare le tasse fanno del programma oltre la Brexit l’elemento non distintivo del suo premierato né vicino alla più ortodossa tradizione conservatrice, quella che, per intenderci, lo vedrebbe accostato proprio alla Lady di Ferro. D’altro canto, il suo mandato rimarrà inevitabilmente concentrato per molti mesi ancora proprio a definire i rapporti futuri con l’Unione. Che non è poco, specie per un leader che vuole tenersi le mani libere ma deve chiudere gli accordi, e che al tempo stesso guarda con molta, forse troppa fiducia ai rapporti con Trump.

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