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I nostri dati nell’ombra

Paola Peduzzi

Il geofencing è lo strumento più di moda nella campagna elettorale di Trump. Il lato “dark” di cui non sapremo mai nulla

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Milano. L’aspetto cruciale della comunicazione politica sui social è che quel che ognuno di noi vede – messaggi, pubblicità – è soltanto suo, pensato per lui, gli altri non ne sanno nulla. Ognuno vive nella propria bolla e accadono le sorprese: gli elettori della Brexit dicevano che c’era un’invasione migratoria insostenibile, e quando gli è stato chiesto: ma chi te l’ha detto?, rispondevano: Facebook – il tuo Facebook è diverso dal mio. L’effetto di quella campagna lo conosciamo, la sua entità non la sapremo mai. Ma sta accadendo di nuovo. La campagna per la rielezione di Trump è la più avanzata dal punto di vista digitale, come dimostra il dibattito sul “geofencing”

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Milano. L’aspetto cruciale della comunicazione politica sui social è che quel che ognuno di noi vede – messaggi, pubblicità – è soltanto suo, pensato per lui, gli altri non ne sanno nulla. Ognuno vive nella propria bolla e accadono le sorprese: gli elettori della Brexit dicevano che c’era un’invasione migratoria insostenibile, e quando gli è stato chiesto: ma chi te l’ha detto?, rispondevano: Facebook – il tuo Facebook è diverso dal mio. L’effetto di quella campagna lo conosciamo, la sua entità non la sapremo mai. Ma sta accadendo di nuovo. La campagna per la rielezione di Trump è la più avanzata dal punto di vista digitale, come dimostra il dibattito sul “geofencing”

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Il geofencing è uno strumento di marketing, un perimetro virtuale che definisce una zona geografica reale e che attiva i dispositivi smart (i nostri telefoni) sulla base della nostra posizione: in sostanza, alcuni software si attivano quando entro in posti specifici, uno stadio o un ospedale o un’università o una chiesa. Per esempio, il geofencing è utilizzato molto dai genitori che vogliono controllare i propri figli: se escono di casa o non entrano a scuola, arriva la segnalazione. Ma i campi di applicazione sono infiniti. Nel 2017, in Massachusetts fu vietato a una società di marketing di usare il geofencing sulle donne che entravano nelle cliniche abortive – ricevevano il messaggio “hai tante altre scelte” – perché costituiva una violazione della loro privacy. Sul New York Times mercoledì, nella sua rubrica settimanale, Thomas Edsall ha spiegato che il geofencing viene ampiamente utilizzato nella campagna elettorale americana. La sua analisi (che ha fatto drizzare i capelli in testa ai democratici) parte dalla dichiarazione di Brian Burch, presidente di un gruppo conservatore chiamato CatholicVote.org, che sta costruendo “il più grande programma di mobilitazione del voto cattolico della storia”, a favore di Donald Trump. Burch citava numeri esatti: sappiamo che in Wisconsin ci sono 199.241 cattolici che negli ultimi 90 giorni sono andati in chiesa almeno tre volte, e di questi 91.373 non sono nemmeno registrati per votare.

   

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Come fa Burch a essere tanto preciso? Lo ha spiegato lui stesso: già dalle elezioni di mid-term del 2018, sono state create alcune campagne targetizzate sugli smartphone per chi entra nelle chiese – ora lo stesso sistema è operativo in almeno sette stati, soprattutto quelli contendibili. Con la geolocalizzazione sempre attivata sui nostri smartphone, questo modello è replicabile in moltissimi altri luoghi: le aziende di geofencing hanno un patrimonio di dati enorme, ed è in vendita. “Il geofencing è soltanto l’ultimo strumento delle campagne digitali – scrive Edsall – che sono un campo senza regole nel quale gli elettori hanno poca o nessuna idea di essere manipolati, in cui le norme sulla trasparenza non valgono e in cui gli attori principali sono anonimi”.

   

Le campagne elettorali “ombra” o “dark”, come vengono chiamate quelle digitali, sono una parte consistente di tutte le operazioni per contattare, coinvolgere e persuadere gli elettori. I democratici sono molto in ritardo rispetto ai repubblicani, non soltanto perché i repubblicani stanno investendo online – su Facebook in particolare – più dei democratici messi insieme ma anche per altri due fattori: uno è incontrovertibile, ed è il fatto che Trump ha molto più tempo per far campagna per sé, visto che i democratici hanno le primarie, sono costretti a spendere molto in stati che non saranno in bilico a novembre e ancora non sanno il loro destino (Bernie Sanders è considerato il più attivo online, e molto abile con i messaggi denigratori nei confronti dei suoi avversari); l’altro è che la campagna digitale di Trump non si è mai fermata dal 2016, è “una furia devastante e permanente”, ha detto un esperto al New York Times, e la quantità di dati raccolta è gigantesca. Ancora qualche giorno fa, il capo della campagna trumpiana, Brad Parscale, ha detto che i comizi di Trump sono una miniera d’oro di dati pronti a fruttare alle elezioni di novembre. Alcuni gruppi democratici, come Acronym e American Bridge, si sono uniti e contano di spendere 300 milioni di dollari per contrastare il dominio trumpiano, ma di buona parte di questo scontro non avremo contezza. Dovremo fidarci degli attori coinvolti o bucare le nostre bolle (non è facile nemmeno farlo, tecnicamente), e a novembre sapremo l’effetto che fa.

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