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Se Trump scatta in Libia

Daniele Ranieri

La guerra civile a Tripoli finirebbe in poche ore se il presidente prendesse una decisione. Non è interessato

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In Libia a soltanto centocinquanta chilometri dall’isola di Lampedusa si combatte un conflitto internazionale che coinvolge le nazioni più potenti della regione e anche qualcuna fuori. L’Italia ha perso la capacità di farsi ascoltare in quella guerra – almeno per ora – anche se gli effetti arriveranno fino a qui. Per questo vale la pena approfondire cosa succede, in poche puntate. Oggi si parla dell’uomo che potrebbe chiudere la guerra civile in un minuto: Donald Trump. [qui trovate le prima puntata]

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In Libia a soltanto centocinquanta chilometri dall’isola di Lampedusa si combatte un conflitto internazionale che coinvolge le nazioni più potenti della regione e anche qualcuna fuori. L’Italia ha perso la capacità di farsi ascoltare in quella guerra – almeno per ora – anche se gli effetti arriveranno fino a qui. Per questo vale la pena approfondire cosa succede, in poche puntate. Oggi si parla dell’uomo che potrebbe chiudere la guerra civile in un minuto: Donald Trump. [qui trovate le prima puntata]

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Roma. Due giorni fa a Washington, nella sala dove il presidente americano Donald Trump annunciava il piano di pace fra Israele e palestinesi assieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, c’era un sorridente Youssef al Otaibi, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti che nella capitale americana è considerato una star della diplomazia. Trump è molto sensibile alle dichiarazioni pubbliche di alleanza che riceve e di sicuro ha notato che gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto, che in Libia stanno dalla parte del generale Haftar, hanno approvato il suo piano di pace – e quindi gli hanno dato credibilità. Invece la Turchia, che sta dalla parte del governo di Tripoli e contro Haftar, ha criticato il piano di pace con durezza. Sono cose che possono far pendere il presidente americano da una parte invece che dall’altra.

 

Quando si parla di America e Libia il punto di partenza è che all’Amministrazione Trump basterebbe una telefonata per fermare la guerra civile in corso. Da quando un drone ha ucciso il generale iraniano Qassem Suleimani mentre usciva dall’aeroporto internazionale di Baghdad, si è capito che questo governo americano è disposto a compiere azzardi – quando vuole. Nel caso libico però non ci sarebbero nemmeno azzardi. Se la Casa Bianca minacciasse il generale Haftar di bombardare le due basi aeree nell’est della Libia che fanno da scalo per tutti i rifornimenti, la guerra finirebbe oggi e senza morti. Le forze del generale sarebbero costrette a interrompere subito l’assedio di Tripoli e non ci potrebbero fare nulla. Per non parlare di cosa accadrebbe se (per pura ipotesi) gli americani decidessero di intervenire con più forza. Magari contro le forze che premono verso Tripoli. Dall’altra parte, anche il governo di Accordo nazionale che difende la capitale è molto esposto a ogni decisione dell’Amministrazione Trump. Non si sta parlando di un intervento a terra: il Pentagono con una campagna aerea può decidere chi far perdere nel giro di pochi giorni.

 

In questi dieci mesi di guerra civile la posizione dell’Amministrazione Trump è stata molto ambigua, non ha offerto indicazioni utili e non ha ancora imboccato una direzione precisa. Il presidente potrebbe decidere di fare una mossa in qualsiasi momento oppure potrebbe restare fedele alla sua dottrina isolazionista.

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Per cercare di manipolare Trump e tirarlo dalla propria parte, entrambi gli schieramenti libici hanno assoldato costosi lobbisti a Washington. Il governo di Tripoli meno di tre settimane dopo l’inizio della guerra ha ingaggiato una compagnia di lobbisti di ex repubblicani, la Mercury Public Affairs, con un anticipo di cinquecentomila dollari più centocinquantamila dollari al mese. Haftar ha risposto un mese dopo con la Linden Government Solutions, presa con un contratto da due milioni di dollari per tredici mesi che – si dice – include anche un incontro fra Haftar e Trump. Il calcolo delle fazioni libiche è chiaro: il presidente è impulsivo, il giorno che decide di schierarsi con noi è fatta, gli altri saranno fregati. Per ora però non è successo. Il dipartimento di stato continua a fare pressione su Haftar perché desista dall’idea di entrare con la forza a Tripoli, perché sarebbe una carneficina, e quindi in teoria questo mette l’America dalla parte del governo di Serraj. Ma il 15 aprile scorso Trump si è fatto convincere durante un incontro con il presidente egiziano Abdul Fattah al Sisi a fare una telefonata di incoraggiamento a Haftar. Il contenuto preciso non è uscito (le telefonate di Trump sono rischiose) ma lo ha esortato a proseguire nelle “operazioni antiterrorismo”, che è il termine usato da Haftar per descrivere la sua guerra. Dove i terroristi sarebbero Serraj e il governo di accordo nazionale. Poi Trump non ha più parlato e la crisi da allora va avanti senza una posizione definitiva dell’America.

(secondo di una serie di articoli)

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