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I porti in Libia

Daniele Ranieri

Agli Emirati piace la guerra di Haftar contro Tripoli per ragioni molto materiali, altro che Berlino

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In Libia, a soltanto centocinquanta chilometri dall’isola di Lampedusa, si combatte un conflitto internazionale che coinvolge le nazioni più potenti della regione e anche qualcuna fuori. L’Italia ha perso la capacità di farsi ascoltare in quella guerra – almeno per ora – anche se gli effetti arriveranno fino a qui. Per questo vale la pena approfondire cosa succede, in poche puntate. Si comincia dagli Emirati Arabi Uniti che hanno dato il via a tutto.

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In Libia, a soltanto centocinquanta chilometri dall’isola di Lampedusa, si combatte un conflitto internazionale che coinvolge le nazioni più potenti della regione e anche qualcuna fuori. L’Italia ha perso la capacità di farsi ascoltare in quella guerra – almeno per ora – anche se gli effetti arriveranno fino a qui. Per questo vale la pena approfondire cosa succede, in poche puntate. Si comincia dagli Emirati Arabi Uniti che hanno dato il via a tutto.

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Roma. Ieri in Libia le forze del governo di Tripoli hanno abbattuto un drone armato Wing Loong degli Emirati Arabi Uniti (ma prodotto in Cina) a est della città di Misurata. E’ l’area dove le forze del generale Haftar tentano di sfondare le linee da est verso ovest e il drone degli Emirati era lì per dare appoggio dall’alto e non soltanto con la sorveglianza delle posizioni nemiche. I missili dei Wing Loong sono responsabili di un terzo delle morti fra i combattenti di Tripoli (fonte: New York Times), inclusa la strage di cadetti la sera del 4 gennaio mentre stavano sull’attenti nella piazza d’armi di una caserma della capitale lontana dal fronte.

 

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I droni sono l’aiuto militare più vistoso che il leader degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed, concede al generale Haftar, ma c’è dell’altro. Nell’ultimo mese almeno una trentina di aerei cargo hanno portato rifornimenti militari dagli Emirati Arabi Uniti agli aeroporti nell’est della Libia, per alimentare l’offensiva contro Tripoli. La visione degli Emirati per quanto riguarda la guerra civile in Libia è chiara, anche se l’emiro non la dichiara in modo esplicito per non scandalizzare la comunità internazionale: la soluzione alla crisi libica non sono i negoziati, è la continuazione del conflitto.

 

Possibilmente fino alla vittoria del suo protetto, il generale Haftar. E tutto questo succede mentre i governi occidentali si cullano nel ricordo della Conferenza di Berlino, che avrebbe dovuto imporre un cessate il fuoco. La risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2011 che proibisce di portare armi in Libia è come se non fosse mai esistita.

  

Gli Emirati hanno almeno due ragioni per aiutare il generale Haftar a prendersi la Libia – anche se “aiutare” è un verbo riduttivo, senza gli Emirati la guerra civile in Libia non sarebbe nemmeno partita. La prima ragione è ideologica e riguarda il fatto che il mondo musulmano sunnita può essere diviso in due grandi blocchi, uno che ha paura dei Fratelli musulmani – ne fanno parte gli Emirati, l’Arabia Saudita, l’Egitto e altri – e un blocco contrapposto che è formato da Turchia e Qatar (ci sono altre divisioni possibili, ma non andiamo fuori tema). La seconda ragione è più terrena. Gli Emirati da tempo hanno deciso di seguire la strategia del cosiddetto “filo di perle”, che poi è diventato “il filo di porti”, che è anche il nome usato per descrivere l’espansione cinese nel sud-est asiatico. Gli Emirati hanno preso il controllo di molti porti nel Corno d’Africa (Eritrea e Somalia) e nel sud dello Yemen e li sfruttano sia come scali marittimi importanti sia come basi militari. Come tutti i regni del Golfo, anche gli Emirati sanno che l’economia basata sul greggio potrebbe diventare sempre meno rilevante nel futuro e che c’è il rischio di restare rattrappiti e ininfluenti dentro ai propri confini. Quindi vogliono proiettarsi all’esterno e investire nella creazione di infrastrutture e di zone d’influenza economiche e militari che dureranno. La Cina lavora alla Via della Seta, un gigantesco corridoio che servirà a spostare beni commerciali e ad allargare la sua influenza politica – e passa per il controllo di porti ben posizionati. Gli Emirati lavorano alla stessa cosa più in piccolo e secondo alcuni vorrebbero innestare la propria iniziativa su quella cinese.

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Questa espansione degli Emirati riguarda anche il Mediterraneo. Negli ultimi dodici anni gli Emirati hanno fatto una serie di accordi in Spagna, in Algeria, a Cipro e nel sud della Francia grazie a Dubai Port World, una società gigantesca che si occupa di gestione dei terminal – in questi casi non ci sono le basi militari, a differenza di quello che accade in Africa e nel sud dello Yemen. Tuttavia è chiaro che se un regime amico degli Emirati Arabi Uniti si instaurasse a Tripoli sotto la guida del generale Haftar, la strategia di espansione di Bin Zayed sarebbe premiata con una costa lunga più di millesettecento chilometri nel centro del Mediterraneo. Abbastanza per entrare in una guerra dove le uniche vittime emiratine finora sono soltanto dei droni cinesi.

 

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(primo articolo di una serie)

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