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Il macronismo all’ultimo sangue

Giuliano Ferrara

Lo scontro con i sindacati, gli scioperi, lo stile di una leadership. Un gigantesco esperimento riformista è sotto attacco in Francia. Perché dal risultato di questo scontro non dipende solo il futuro di una presidenza ma anche quello dell’Europa

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Forse ce la si può cavare, come spesso succede, rinviando allo spirito ribelle e rivoluzionario dei francesi o perlomeno al loro onnipresente malumore, stereotipo dei più vivi e presenti. Ma quello che succede dalle parti di Emmanuel Macron è la storia in corso di un gigantesco esperimento riformista combattuto all’ultimo sangue, il più recente in ordine di tempo, il primo forse in ordine di grandezza, quanto meno in relazione all’Europa (Blair accennò vittoriosamente per oltre un decennio alla terza via ma in un contesto come sempre britannico, originale e particolare).

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Forse ce la si può cavare, come spesso succede, rinviando allo spirito ribelle e rivoluzionario dei francesi o perlomeno al loro onnipresente malumore, stereotipo dei più vivi e presenti. Ma quello che succede dalle parti di Emmanuel Macron è la storia in corso di un gigantesco esperimento riformista combattuto all’ultimo sangue, il più recente in ordine di tempo, il primo forse in ordine di grandezza, quanto meno in relazione all’Europa (Blair accennò vittoriosamente per oltre un decennio alla terza via ma in un contesto come sempre britannico, originale e particolare).

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Oggi Macron è sfidato da una sequela di scioperi che ha forza decrescente ma si concentra sulle nervature essenziali di Parigi, della sua immensa banlieue e della rete nazionale dei trasporti su rotaia; sopra tutto sono battuti ormai tutti i record di durata delle agitazioni, e le manifestazioni si moltiplicano e intralciano i negoziati con un rilancio continuo e rumoroso. In discussione tra concertazione, decisionismo e sospetti è la riforma delle pensioni, sempre un brutto affare, una brutta gatta da pelare. Il fronte sindacale è diviso, c’è un orientamento al dialogo di Laurent Berger e della sua Cfdt, che è il sindacato numericamente più forte, contrastato fraternamente da una emulativa Cgt con il suo capo Philippe Martinez, sottile energumeno con i baffi a manubrio che sembra uscito da una trilogia di Zola, e la Cgt è il sindacato tradizionale della lotta di classe e della rappresentanza di sinistra e comunista. Inutile inoltrarsi nei tecnicismi di una riforma che tende a universalizzare diritti, eliminare situazioni corporative, salvo le circostanze effettive di diversità e particolarità, e costruire un equilibrio finanziario con un obiettivo generale di elevamento di due anni dell’età pensionabile in un paese che lavora, produce ricchezza ma è abituato in molti settori a una tutela e gestione gelose del suo tempo libero, pre e postpensionistico.

   

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Macron è presidente partendo dai voti di adesione di un quarto dei suoi concittadini elettori, diventato due terzi nel secondo turno delle presidenziali del 2017 e abbondante maggioranza nelle successive elezioni parlamentari. E’ un rampollo della borghesia agiata della provincia calvinista francese, ha un curriculum di alto funzionario e banchiere per così dire umanista, e dopo un breve tragitto nella sinistra di governo all’epoca di Hollande, questo mostro di abilità, di duttilità e di sapienza politica, oltre che di colossale fortuna, ha compiuto il miracolo di distaccarsi e fondare un partito e un’area che hanno con successo emarginato i pilastri della destra neogollista e della sinistra socialista, sconfiggendo il lepenismo con un’alleanza di centro all’insegna di un programma liberale. E liberale è ancora parola scandalosa e molesta nella cultura prevalente di quel paese, al di là della pratica capitalistica, da sempre vivace ed estesa. L’argent Roi è tabù nella concezione dominante dei rapporti sociali e umani, anche e sopra tutto, non senza ipocrisia, per chi lo possiede, lo investe e ci lavora.

   

Macron si è presentato con molte idee, alcune delle quali convenzionali e banali, come sempre succede. Altre invece decisive per il rilancio dell’occupazione, per la modifica del mercato del lavoro, per l’innovazione produttiva e per una ripresa di mobilità e innovazione imprenditoriale in una situazione di invecchiamento e obsolescenza di larghi settori dell’economia e della società, idee buone per la competizione commerciale internazionale, per la cooperazione fattiva all’interno delle istituzioni europee da riformare, per una vera giustizia fiscale ma non punitiva, per un rilancio di educazione e istruzione all’altezza dei problemi del presente. Macron ha sempre enunciato, e cercato di praticare, una strategia che definisce di liberazione (liberazione di energie, neoliberalismo in sostanza) e di protezione (salvaguardia del welfare, sebbene con aggiustamenti e riforme attese da lunga data e non soltanto in Francia). Il suo punto forte, indebolito dalla stagnazione politica del modello Merkel, nonostante la sua solidità imprescindibile, e dall’erratica politica americana sotto Trump, è una politica estera indipendente e radicalmente europeista quanto tenacemente appesa ai tradizionali valori di Grandeur nazionale. Ma questo è un altro discorso.

   

Ora in due anni e mezzo Macron ha prima dovuto affrontare la jacquerie, o rivolta periferica, dei gilet gialli, con il suo seguito di violenza moltitudinaria in tutte le città francesi, di blocchi stradali e aggressività collettiva nelle campagne e nelle strutture a rete dei servizi e delle strade, e con la famosa esplosione di violenza particolarmente vistosa nella capitale, e un’aggressione personale diretta a lui stesso e agli uomini e alle residenze di membri del governo e della maggioranza parlamentare; infine questa reviviscenza sindacale prolungata e durissima, senza tregua anche nelle festività natalizie e di fine d’anno, che punta alla convergenza delle lotte di diversi settori pubblici (il privato è non particolarmente mobilitato), con effetti di blocco che non si vedevano dal 1968 e dal novembre e dicembre 1995. Macron ha cambiato in parte il suo stile, all’inizio di rottura e personale, decisionista e di sfida, e ha impostato la seconda parte del quinquennato presidenziale su una base concertativa più larga, mettendosi come si dice all’ascolto delle rabbie e delle doglianze del paese e dei corpi intermedi, cercando di districarsi dalla tremenda accusa, almeno in francese ideologico corrente, di essere il presidente dei ricchi. In parte ci è riuscito, anche con concessioni pericolose alla violenza della jacquerie dei gilet gialli, che è rifluita, e con la successiva campagna di dibattito nazionale imperniata sui sindaci e le comunità locali, ma solo in parte, come dimostra la reviviscenza degli scioperi e l’asperità del conflitto attuale.

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Si consideri simpatico o no il suo protagonista, il confronto ingaggiato da Macron è al di là di ogni dubbio un esperimento riformista su scala europea, e come tale è considerato anche da una parte non irrilevante dei suoi critici in un paese che adora schierarsi, un po’ per celia e un po’ per non morire, contro il potere. 

   

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I più illuminati dicono che se perde la battaglia in corso, e abbassa decisamente l’età pensionabile proposta, dopo aver fatto importanti concessioni e dovute alla complessità delle situazioni corporative, alcune delle quali comprensibili, è fottuto il suo progetto in radice. Se poi dovesse vincere instaurando una specie di pace sociale coatta, con la sconfitta del sindacato che ottiene solidarietà sentimentale da una maggioranza d’opinione convinta però della necessità della riforma delle pensioni, la sua sarebbe una vittoria di Pirro costruita su macerie, e l’immagine del presidente dei ricchi, altro che riformismo, trionferebbe di forza con ripercussioni inaudite. L’unica soluzione è un approdo negoziale che divida il sindacato tra riformisti e massimalisti e produca una riforma seria ma diluita in un quadro di protezione gradualistica dei suoi stessi effetti sociali. Siamo nei giorni e nelle settimane in cui questa storia si deciderà in un senso o nell’altro, con conseguenze notevoli in Francia e in Europa.

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