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È il disimpegno che porta alla guerra

Giuliano Ferrara

Con Trump e i suoi al timone non si può stare al senso ordinario delle cose neppure quando è fatta la cosa giusta. Ma i venti di guerra non nascono a causa delle azioni di prevenzione: nascono dall’immobilismo. E’ il momento per tutti di riconoscerlo

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È tutto vero quel che mezza America dice di Trump. Illuso, narcisista, erratico, le intimidazioni di questo leader non sembrano deterrenza razionale, con uso della forza, e spesso sortiscono risultati opposti a quelli delle politiche di dissuasione. È successo con la Corea del Nord, minacciata di polverizzazione e pimpante nei suoi nuovi, minacciati esperimenti nucleari. Sta succedendo con la Cina, contro la quale il protezionismo tariffario ha spuntato al massimo un sulfureo e incerto negoziato. Quando si arriva alla minacciata distruzione del sito di Persepoli, che ha richiesto la smentita del Pentagono, si vede che il retroterra della decisione di eliminare Suleimani entro una catena di provocazioni sempre maggiori, come atto preventivo di guerra al terrorismo internazionale, è solforoso, viscido, un’affermazione di potenza tecnica fino a ora senza precedenti e susseguenti capaci di spiegarla come strategia di stabilizzazione e di rovesciamento delle dinamiche del terrore in Medio Oriente. Con Trump e i suoi al timone non si può stare al senso ordinario delle cose nemmeno quando è fatta la cosa che appare giusta. Tutto è caotico, i tempi, le circostanze, il linguaggio, i rapporti interni che generano gli atti di potere nella politica estera e di sicurezza. Twitter è la grande novità mefistofelica nel linguaggio della politica, nella sua durezza, brevità aforistica, nel suo essere un’arma rapida di distrazione e distruzione potenziale di massa. Regolarsi sistematicamente sui tempi dei post e sulla loro drammatica asciuttezza è già un porsi fuori di un qualsiasi ordine costituzionale, l’esercizio di una dittatura mediatico-politica più che l’uso razionale delle prerogative dell’esecutivo.

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È tutto vero quel che mezza America dice di Trump. Illuso, narcisista, erratico, le intimidazioni di questo leader non sembrano deterrenza razionale, con uso della forza, e spesso sortiscono risultati opposti a quelli delle politiche di dissuasione. È successo con la Corea del Nord, minacciata di polverizzazione e pimpante nei suoi nuovi, minacciati esperimenti nucleari. Sta succedendo con la Cina, contro la quale il protezionismo tariffario ha spuntato al massimo un sulfureo e incerto negoziato. Quando si arriva alla minacciata distruzione del sito di Persepoli, che ha richiesto la smentita del Pentagono, si vede che il retroterra della decisione di eliminare Suleimani entro una catena di provocazioni sempre maggiori, come atto preventivo di guerra al terrorismo internazionale, è solforoso, viscido, un’affermazione di potenza tecnica fino a ora senza precedenti e susseguenti capaci di spiegarla come strategia di stabilizzazione e di rovesciamento delle dinamiche del terrore in Medio Oriente. Con Trump e i suoi al timone non si può stare al senso ordinario delle cose nemmeno quando è fatta la cosa che appare giusta. Tutto è caotico, i tempi, le circostanze, il linguaggio, i rapporti interni che generano gli atti di potere nella politica estera e di sicurezza. Twitter è la grande novità mefistofelica nel linguaggio della politica, nella sua durezza, brevità aforistica, nel suo essere un’arma rapida di distrazione e distruzione potenziale di massa. Regolarsi sistematicamente sui tempi dei post e sulla loro drammatica asciuttezza è già un porsi fuori di un qualsiasi ordine costituzionale, l’esercizio di una dittatura mediatico-politica più che l’uso razionale delle prerogative dell’esecutivo.

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Detto questo, si capisce che molti nevertrumper, maicontrump, in particolare tra i neoconservatori alla guida dopo l’11 settembre del 2001, confermino la decisione su Suleimani, tremando per la gestione delle conseguenze (lo ha fatto Marc Ruel Gerecht, tra gli altri antitrumpiani dell’American Enterprise Institute). Lì è la vera questione e natura dello scontro, ineludibile. Lì nasce la giustificazione per scenari di guerra anche dispiegata, su una scala quasi inverosimile dato l’impaccio grave che è e resta una gestione insicura e nevrotica del multilateralismo, di cui l’America First! è insieme l’altra faccia e una amara conseguenza, un pasticcio diplomatico politico e militare che diviene schermo per l’immobilismo europeo e le dinamiche egemonistiche di turchi, russi e cinesi. E questo pasticcio comincia quando nel secondo mandato di George W. Bush, con l’eliminazione di Rumsfeld e il congelamento di Cheney e il riesumato potere degli uomini di Bush Sr., furono poste le premesse della grande ritirata non strategica del potere unilaterale americano in Medio Oriente, più la coalizione dei willing, con i suoi obiettivi di trasformazione e rebuilding di un’area radicalmente contagiata dall’avventurista jihadismo islamista.

 

 

Paul Krugman si domanda sulfureo che cosa farebbe il governo americano se gli iraniani avessero apertamente rivendicato l’uccisione di Cheney per vendicare i morti della guerra in Iraq e prevenire nuovi attacchi occidentalisti in terra mediorientale, paragonando l’ex vicepresidente e uomo forte del primo mandato di W. Bush a Suleimani. In questo paragone c’è tutto l’assurdo giuridicomane, legalistico, e folle sul piano storico, della posizione che non prende atto di una guerra in corso, la guerra di civiltà, al cui centro stanno non le moraline sui sauditi e altre alleanze sghembe e sul petrolio, dettagli alla fine insignificanti, ma l’esistenza in vita dello Stato di Israele, la situazione prenucleare di un regime rivoluzionario sciita e delle sue lunghe mani miliziane in tutta la regione, e naturalmente il peso storico del binladenismo e del suo atto fondativo e fatale l’11settembre. Se c’è un pericolo di guerra dispiegata al di là del credibile oggi, ma non dell’impossibile, visto che a gestire la deterrenza c’è un impostore capace e incapace di tutto, e a contrastarlo un potere rivoluzionario antioccidentale della forza di quello degli Imam e Ayatollah, questo pericolo sta nella situazione com’è, come si presenta in tutta evidenza per chi la voglia intendere e vedere, e nella disastrosa decisione di chiudere gli occhi per tanti anni di fronte ai suoi dati e alla sua dinamica nell’esperienza. Anche noi antitrumpiani fondamentalisti siamo destinati a registrare questo fatto e a conformarci.

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