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Il lamento dei trumpiani traditi

Mattia Ferraresi

I profeti del disimpegno e le ricadute elettorali del post Suleimani

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Roma. Tucker Carlson, avamposto della falange repubblicana di Fox News, è stato il primo degli ultratrumpiani a denunciare l’uccisione di Qassem Suleimani, prova del tradimento della postura “America First” e della cedevolezza del presidente che aveva promesso di mettere fine alla “endless war”. Carlson ha addossato la colpa del sussulto interventista ai consiglieri che hanno spinto Trump ad agire, personaggi che “fino a venti minuti fa denunciavamo come ‘deep state’ e giuravamo di non ascoltare più”, ma nella sua omelia via cavo non ha risparmiato il commander in chief. Ann Coulter, vociante opinionista della destra americana, ha twittato sconsolata: “Pensavamo che Trump fosse diverso”, spiegando che tutti i presidenti repubblicani promettono di tirarci fuori dalle guerre in corso, “e poi finiscono per iniziarne di nuove”. Pat Buchanan, icona dei paleoconservatori che proclamava il verbo nazionalista quando Trump licenziava celebrità di rango minore nei reality show, ha scritto che “uccidere Suleimani era giusto, ma ciò che è giusto non è sempre saggio” e ha provocatoriamente suggerito di dare seguito alla mozione non vincolante approvata dal parlamento di Baghdad: “Invece di inviare soldati in Iraq e Kuwait per difendere le truppe che sono già lì, dovremmo cedere alle richieste dei nazionalismi locali, iniziando a riportare a casa i nostri soldati, lasciando che gli iraniani, gli iracheni, i libici, i siriani, gli yemeniti e gli afghani risolvano le loro controversie”. Lo storico Andrew Bacevich, presidente del realista Quincy Institute, ha scritto che con lo strike di Baghdad “Trump ha gettato la spugna. Le guerre che aveva promesso di terminare continueranno”.

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Roma. Tucker Carlson, avamposto della falange repubblicana di Fox News, è stato il primo degli ultratrumpiani a denunciare l’uccisione di Qassem Suleimani, prova del tradimento della postura “America First” e della cedevolezza del presidente che aveva promesso di mettere fine alla “endless war”. Carlson ha addossato la colpa del sussulto interventista ai consiglieri che hanno spinto Trump ad agire, personaggi che “fino a venti minuti fa denunciavamo come ‘deep state’ e giuravamo di non ascoltare più”, ma nella sua omelia via cavo non ha risparmiato il commander in chief. Ann Coulter, vociante opinionista della destra americana, ha twittato sconsolata: “Pensavamo che Trump fosse diverso”, spiegando che tutti i presidenti repubblicani promettono di tirarci fuori dalle guerre in corso, “e poi finiscono per iniziarne di nuove”. Pat Buchanan, icona dei paleoconservatori che proclamava il verbo nazionalista quando Trump licenziava celebrità di rango minore nei reality show, ha scritto che “uccidere Suleimani era giusto, ma ciò che è giusto non è sempre saggio” e ha provocatoriamente suggerito di dare seguito alla mozione non vincolante approvata dal parlamento di Baghdad: “Invece di inviare soldati in Iraq e Kuwait per difendere le truppe che sono già lì, dovremmo cedere alle richieste dei nazionalismi locali, iniziando a riportare a casa i nostri soldati, lasciando che gli iraniani, gli iracheni, i libici, i siriani, gli yemeniti e gli afghani risolvano le loro controversie”. Lo storico Andrew Bacevich, presidente del realista Quincy Institute, ha scritto che con lo strike di Baghdad “Trump ha gettato la spugna. Le guerre che aveva promesso di terminare continueranno”.

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Altri interpreti del conservatorismo nazionalista che vedevano in Trump un profeta del disimpegno americano si sono uniti al coro di delusione per un’iniziativa che difficilmente può essere derubricata come vendetta circostanziata e senza conseguenze di medio e lungo periodo. E’ un coro flebile che per il momento non ha la forza per sovrastare il rumore di questi giorni tumultuosi, ma è significativo perché pretende di interpretare il sentimento di decine di milioni di americani che hanno dato fiducia a un presidente in tensione con la politica estera del partito repubblicano recente.

 

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I forgotten men del Midwest – è il ragionamento – non hanno votato Trump per vedere l’America impelagarsi in nuovi conflitti, allargando il raggio d’azione di una superpotenza già fin troppo coinvolta negli affari altrui, ma per sanare le piaghe all’interno dei confini nazionali. Il riorientamento dell’America in senso nazionalista era uno dei cardini della confusa ideologia trumpiana, e il gruppo dei repubblicani delusi dice ora che il tradimento si è consumato in modo irreparabile. Come ha scritto il Wall Street Journal in un editoriale che invece esalta la decisione della Casa Bianca, i consiglieri isolazionisti ora cercheranno di convincere il presidente a lavarsi le mani delle conseguenze dell’attacco, ma “nel mondo post-Suleimani questo non è possibile”.

 

Il lamento dei nazionalisti apre così la questione delle ricadute domestiche dell’azione trumpiana, fatto non secondario per un presidente con una procedura d’impeachment che gli pende sulla testa e che si appresta ad affrontare una durissima campagna elettorale. Nell’immediato l’eliminazione di Suleimani ha distolto l’attenzione dall’impeachment, il che non è poco per un leader che valuta tutto in termini di audience ed esposizione mediatica. Ma in vista delle elezioni di novembre è lecito domandarsi che effetto avrà sull’elettorato più fedele un’azione che riporta il presidente – per scelta strategica consapevole o per impulso istintivo – nell’alveo della tanto vituperata logica internazionalista. Ross Douthat, uno degli opinionisti conservatori del New York Times, ha posto la stessa questione in termini più sofisticati: l’atteggiamento di Trump nelle relazioni internazionali, ha spiegato, è “jacksoniano”, risponde cioè a una forma di nazionalismo combattivo che teme il coinvolgimento internazionale ma è pronta a usare la forza per reagire alle minacce. E’ questo, secondo Douthat, l’atteggiamento che “molti americani, specialmente i bianchi delle zone rurali e della working class, hanno sempre prediletto”. Il problema è che nel contesto geopolitico attuale questa postura tattica non s’accorda particolarmente bene con l’obiettivo dichiarato di tirarsi fuori dai conflitti in giro per il mondo, promessa fatta a un elettorato che avrà anche istinti jacksoniani, ma rumoreggia, per bocca dei suoi interpreti pubblici, quando questi si manifestano con decisioni le cui conseguenze sfuggono al controllo.

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