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Contro la strategia del dialogo in Libia

Daniele Ranieri

Erdogan e Putin si siedono assieme a parlare della crisi libica e ogni loro parola conterà moltissimo. L’Italia insegue la strategia del dialogo, ma a Tripoli non ci rispondono più al telefono. Il peccato originale della nostra impostazione

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Oggi il capitolo più importante della guerra civile in Libia è in Turchia, dove il presidente russo Vladimir Putin incontra il presidente Recep Tayyip Erdogan. Putin da mesi appoggia il generale libico Khalifa Haftar con centinaia di mercenari russi che – grazie all’addestramento e all’equipaggiamento superiori – sono un vantaggio decisivo nei combattimenti libici. Spesso questi scontri sono molto localizzati e avvengono tra poche decine di persone, l’effetto russo si sente. Dall’altra parte Erdogan ha mandato in Libia soldati, mezzi e un contingente di mercenari siriani per salvare Tripoli dall’assedio. Schierati sui due fronti contrapposti, i due leader hanno una caratteristica in comune: non seguono la strategia del dialogo. Il mondo non si perderà una parola della loro conversazione di mercoledì – in senso figurato: sarà a porte chiuse e senza conferenza stampa finale – proprio perché i due non cercano il dialogo come priorità. In questi mesi prima hanno preso una posizione chiara, poi hanno creato una situazione in cui sono diventati indispensabili, e adesso si presentano a un dialogo perché hanno qualcosa da dire.

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Oggi il capitolo più importante della guerra civile in Libia è in Turchia, dove il presidente russo Vladimir Putin incontra il presidente Recep Tayyip Erdogan. Putin da mesi appoggia il generale libico Khalifa Haftar con centinaia di mercenari russi che – grazie all’addestramento e all’equipaggiamento superiori – sono un vantaggio decisivo nei combattimenti libici. Spesso questi scontri sono molto localizzati e avvengono tra poche decine di persone, l’effetto russo si sente. Dall’altra parte Erdogan ha mandato in Libia soldati, mezzi e un contingente di mercenari siriani per salvare Tripoli dall’assedio. Schierati sui due fronti contrapposti, i due leader hanno una caratteristica in comune: non seguono la strategia del dialogo. Il mondo non si perderà una parola della loro conversazione di mercoledì – in senso figurato: sarà a porte chiuse e senza conferenza stampa finale – proprio perché i due non cercano il dialogo come priorità. In questi mesi prima hanno preso una posizione chiara, poi hanno creato una situazione in cui sono diventati indispensabili, e adesso si presentano a un dialogo perché hanno qualcosa da dire.

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L’Italia nel suo tentativo di governare la crisi libica è partita invece dal punto di vista opposto: si parla con chiunque, sempre, in ogni occasione, anche se non c’è nulla da scambiare. Il dialogo per il dialogo. La visita del ministro degli Esteri Luigi Di Maio il 17 dicembre era disegnata per parlare a entrambe le parti della guerra civile, la Tripoli del premier Fayez al Serraj e la Bengasi di Haftar ma come è molto chiaro a nemmeno un mese di stanza non è andata bene. E’ stata il trionfo del dialogo, ma non ha modificato la traiettoria della guerra civile di un centimetro. Anzi, quella traiettoria si è fatta ancora più pericolosa. Erdogan ha annunciato l’intervento in Libia, un drone ha colpito con un missile i cadetti disarmati dell’accademia militare a Tripoli e ha fatto strage e il generale Haftar ha dichiarato il jihad contro il premier Serraj (ma non era lui l’uomo forte che avrebbe sradicato gli estremisti?).

  

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Lunedì Di Maio ha esaltato di nuovo il dialogo in un post pieno di buone intenzioni su Facebook: “Ora è il momento di scommettere sul dialogo, sulla diplomazia e sulle soluzioni politiche. Il dialogo crea, il dialogo è per chi sa costruire e, come forza di governo, questa è la risposta che scegliamo per l’Italia”. Il problema è che nessuno vuole dialogare con noi. Due giorni fa la missione europea in Libia sponsorizzata molto da Di Maio è stata annullata ufficialmente per ragioni di sicurezza, ma forse è successo perché Serraj l’ha snobbata. Non aveva tempo di parlare con gli europei che non hanno nulla di concreto da proporre e che se pure l’avessero arrivano comunque in ritardo. Nello stesso giorno il suo nemico, il generale Haftar, ha annunciato la presa di Sirte – una città sulla costa che è vicina a Misurata, la piccola città-stato che con le sue milizie difende Tripoli ma che adesso dovrà pensare a proteggersi. A proposito: Haftar sì che se ne intende di dialogo fattivo, ha conquistato Sirte perché ha convinto il battaglione 604, quello dei salafiti locali, a cambiare casacca e a passare dalla sua parte. Probabile che sia riuscito a compiere questa operazione con i soldi che gli arrivano in quantità dagli emiratini – anche loro molto esperti in questo tipo di dialogo concreto.

  

Dopo che la missione è stata rimandata, Di Maio ha proposto al premier Serraj un vertice urgente in un luogo in Europa da definirsi ma quello si è negato al telefono (fonte: Repubblica di martedì). Serraj è diventato leader grazie alla diplomazia italiana, ora non risponde più al telefono. La strategia del dialogo presuppone che ci sia qualcosa da offrire, da scambiare, non soltanto la pura volontà di dialogare. Dal ministero degli Esteri arrivano a tratti proposte, ma perlopiù hanno a che fare con ulteriori incontri e con altre dosi di dialogo. Si parla spesso di una Conferenza a Berlino, ma doveva tenersi a novembre e siamo a gennaio. Si parla di un inviato speciale dell’Italia per la Libia, ma c’è il timore che possa essere poco più di un agnello sacrificale a cui dare tutte le colpe. A metà dicembre si è parlato anche dell’apertura di un consolato italiano a Bengasi, ma poi non se ne è saputo più nulla. Ora quelli che meno hanno pensato al dialogo si siedono nella stessa stanza per un dialogo vero.

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