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La marea rosa si è arenata. La caduta della sinistra cocalera in America latina

Avevano promesso di aiutare i poveri. I regimi socialisteggianti sono finiti nel disastro economico e nella corruzione

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Un Foglio internazionale. Ogni lunedì, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere, selezionate per voi da Giulio Meotti


 

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"Yawar Copana era elettrizzato dalla gioia quando Evo Morales, un indiano Aymara come lui, diventò presidente della Bolivia nel 2006”, scrivono Juan Forero e David Luhnow. “Sembrava aprirsi una nuova era dove le persone più marginalizzate del paese venivano rappresentate nel palazzo presidenziale. Quasi 14 anni dopo, con il presidente costretto, il mese scorso, a rassegnare le dimissioni per via di uno scandalo di brogli elettorali, Copana definisce la recente direzione di Morales un ‘periodo di decadenza, di depravazione’. Questo professore trentaduenne parla con disprezzo del governo autoritario guidato da quello che un tempo era il suo eroe. ‘Le persone si sentono tradite’, dice. La partenza di Morales ha contribuito a mettere fine a un capitolo potente ma dannoso per la sinistra dell’America latina. Lui ha fatto parte di una generazione di leader socialisti che sono andati al potere tra l’inizio e la metà degli anni 10 del 2000, ognuno prendendo forza dal successo degli altri. Al culmine di questo trend, nel 2009, i presidenti della cosiddetta ‘marea rosa’ guidavano 11 paesi e circa 300 milioni di persone. All’inizio, loro hanno offerto speranza a quei milioni di cittadini. Un sensibile rialzo dei prezzi delle merci, dalla soia argentina al ferro brasiliano, alimentato dalla domanda cinese, ha portato alla crescita economica e a un sostenuto declino della povertà – dal 45 per cento di prima dell’inizio del boom, al 28 per cento alla sua conclusione 11 anni dopo. Ciò ha contribuito a rendere molti presidenti estremamente popolari. ‘Avevo sempre più lavoro e vedevo solo crescita, progresso e speranza’, dice Carlos Fe, un trentottenne elettricista argentino.

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Ma anche prima che l’economia cinese iniziasse a rallentare e che i prezzi delle merci tornassero a livelli normali nel 2014, era chiaro che i leader della marea rosa avevano due difetti fatali: un attaccamento al potere che aveva portato a un autoritarismo e a una corruzione crescenti; e una mancanza di idee su come generare crescita economica senza fare affidamento a un boom di risorse o a prestiti. ‘Fu un momento di euforia, poi arrivò il processo di governo’, dice Moritz Akerman, un editorialista colombiano, ex mediatore politico del Partito comunista. ‘Era tutto un sussidiare i poveri e creare rapporti di dipendenza. Non era sostenibile’. Durante gli 11 anni del boom i paesi chiave della marea rosa – Argentina, Brasile, Ecuador, Bolivia e Venezuela – raggiunsero un rispettabile 4,3 per cento di tasso di crescita medio annuo. Ma i loro colleghi della destra politica, gli esportatori di merci Peru, Colombia e Cile – quest’ultimo guidato da un governo di centro sinistra che è stato un attento amministratore economico – hanno fatto ancora meglio, raggiungendo una crescita del 5 per cento. Da allora, le economie dei due fronti politici hanno iniziato a divergere significativamente. Mentre Perù, Colombia e Cile hanno continuato a crescere ogni anno, a partire dal 2015, con una media, più contenuta del passato, del 2,7 per cento, l’economia venezuelana è collassata, perdendo più di metà del suo valore, mentre gli altri stati della marea rosa hanno registrato una crescita annuale minore dell’1 per cento. I paesi che non erano stati spazzati via dal populismo della marea rosa, quando il boom è finito, godevano di una finanza pubblica più solida e di un robusto settore privato. In altre parole, avevano messo da parte dei soldi nel momento della festa per spenderli in tempi più cupi, spiega Javier Corrales, uno studioso di America latina all’Amherst College.

 

La sinistra comunque continua a far parte della scena politica dell’America latina. Il 10 dicembre il movimento populista peronista è ritornato al potere in Argentina, dopo aver sconfitto un presidente favorevole al mercato nelle elezioni di ottobre. Il Messico, che ha resistito all’assalto della sinistra durante l’èra della marea rosa, da un anno è guidato da un nazionalista antiestablishment, Andrés Manuel López Obrador. Ma in entrambi i paesi le difficili realtà economiche pongono dei forti vincoli rispetto ai loro predecessori che facevano spesa senza vincoli, e ci sono poche opportunità per un’alleanza regionale tra leader che condividono mentalità simili.

 

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L’originale ondata socialista fu la risposta a un cupo decennio di crescita debole negli anni 90, che a sua volta alimentò la delusione per le politiche supportate dagli Stati Uniti e focalizzate sulla disciplina fiscale, privatizzazioni e libero mercato. Le crisi economiche nei tre paesi più grandi della regione – Brasile, Messico e Argentina – hanno lasciato molti latinoamericani diffidenti delle ricette di Washington. Nel 2005 era chiaro quanto l’influenza degli Stati Uniti fosse diminuita su questi paesi. A un summit dei paesi del continente americano in Argentina, a cui partecipò il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, i tre presidenti più progressisti dell’epoca – Chavez, il brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva e l’argentino Nestor Kirchner – hanno seppellito un accordo di libero scambio nell’emisfero promosso da Bush. ‘Che miopia’, dice Monica de Bolle, senior fellow presso il Peterson Institute for International Economics. ‘Ci sono state tutte queste discussioni sul commercio tra paesi del sud e tra i paesi in via di sviluppo, senza l’aiuto degli Stati Uniti. Ma ciò non era credibile’”.

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Ma anche se i leader della marea rosa si sono allontanati dall’influenza statunitense, non hanno modernizzato le loro economie. Invece di sfruttare il boom per diversificare l’economia, i leader progressisti hanno puntato tutto su pochi settori strategici e parassitari. Ad esempio in Venezuela il petrolio rappresentava il 69 per cento delle esportazioni nel 1998, quando fu eletto Chávez. Nel 2012, nell’ultimo anno in carica di Chávez, il petrolio rappresentava il 97 per cento delle esportazioni del paese. La Bolivia ha consumato metà delle sue riserve internazionali e ora ha un deficit fiscale di oltre l’8 per cento del pil. Ma malgrado una politica economica miope, come in Venezuela, Nicaragua ed Ecuador, il governo ha cercato di rimanere al potere forzando le regole della democrazia. Morales ha modificato la Costituzione mentre il tribunale ha ignorato il risultato del referendum sul limite al numero dei mandati in modo da poter candidarsi per la quarta volta. Ora Morales è in esilio. Ma come altri leader messi fuorigioco parla di un possibile ritorno invocando “il risveglio del popolo”. (Traduzione di Samuele Maccolini) 

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 dicembre sul Wall Street Journal

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