PUBBLICITÁ

I democratici avrebbero dovuto twittare la bandiera, non darsi alla retorica perdente

Giuliano Ferrara

Sulla politica estera e di sicurezza non si scherza, s’arzigogola o si divaga. Neanche la volta che l’impostore fa per obbligo la cosa giusta

PUBBLICITÁ

Ben Sasse è un senatore americano, un repubblicano dissidente del Nebraska, tra i pochi a non compromettersi con la leadership erratica, con l’impostura di Donald Trump, tra i pochissimi ad averla duramente contrastata a prezzo di tutta la sua carriera parlamentare. Ieri quest’uomo coraggioso ha detto che “solo un’ubriacatura facinorosa” può delegittimare l’ordine di annientare il generale Suleimani e i suoi complici iracheni con uno strike ben mirato: “Il generale Suleimani ha ucciso centinaia e centinaia di americani e stava pianificando attivamente nuove stragi. Questo Comandante in Capo, come qualunque C-in-C, aveva il dovere di difendere l’America uccidendo questo bastardo”. Il linguaggio vendicativo e patriottico all’estremo è del Nebraska, ma il senso politico è cristallino. Uno straordinario spirito di sconfitta ha invece indotto i democratici americani a questa incredibile delegittimazione: siccome Trump è uno che poteva volare a Teheran a prendere un tè verde con Khamenei con la stessa disinvoltura con cui ha accolto una indicazione del Pentagono e ha dato un fatale ordine politico per ristabilire un minimo di equilibrio nella regione delle guerre di civiltà, siccome il suo comportamento è sempre e sistematicamente elettorale e inaffidabile dal punto di vista costituzionale e istituzionale, allora bisognava avallare l’assedio dell’ambasciata americana a Baghdad e sigillare, con una nuova dismissione del dovere politico e militare, il grave bilancio disfattista della presidenza Obama. Al contrario, i democratici avrebbero dovuto twittare la bandiera a stelle e strisce, punto; invece, prigionieri di una logica letale hanno fatto esercitazioni di retorica politica perdente.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Ben Sasse è un senatore americano, un repubblicano dissidente del Nebraska, tra i pochi a non compromettersi con la leadership erratica, con l’impostura di Donald Trump, tra i pochissimi ad averla duramente contrastata a prezzo di tutta la sua carriera parlamentare. Ieri quest’uomo coraggioso ha detto che “solo un’ubriacatura facinorosa” può delegittimare l’ordine di annientare il generale Suleimani e i suoi complici iracheni con uno strike ben mirato: “Il generale Suleimani ha ucciso centinaia e centinaia di americani e stava pianificando attivamente nuove stragi. Questo Comandante in Capo, come qualunque C-in-C, aveva il dovere di difendere l’America uccidendo questo bastardo”. Il linguaggio vendicativo e patriottico all’estremo è del Nebraska, ma il senso politico è cristallino. Uno straordinario spirito di sconfitta ha invece indotto i democratici americani a questa incredibile delegittimazione: siccome Trump è uno che poteva volare a Teheran a prendere un tè verde con Khamenei con la stessa disinvoltura con cui ha accolto una indicazione del Pentagono e ha dato un fatale ordine politico per ristabilire un minimo di equilibrio nella regione delle guerre di civiltà, siccome il suo comportamento è sempre e sistematicamente elettorale e inaffidabile dal punto di vista costituzionale e istituzionale, allora bisognava avallare l’assedio dell’ambasciata americana a Baghdad e sigillare, con una nuova dismissione del dovere politico e militare, il grave bilancio disfattista della presidenza Obama. Al contrario, i democratici avrebbero dovuto twittare la bandiera a stelle e strisce, punto; invece, prigionieri di una logica letale hanno fatto esercitazioni di retorica politica perdente.

PUBBLICITÁ

 

 

PUBBLICITÁ

Può essere che le conseguenze dell’uccisione di Suleimani, e vedremo quali saranno, allarmino una parte consistente dell’opinione americana, offrendo un mezzo vantaggio di ripiego a un partito che ha passato gli ultimi dodici anni a rovesciare l’unica possibile strategia, quella di George W. Bush, capace di contenere l’orrore in medio oriente e altrove, può essere; ma al momento a Trump è stato lasciato il vantaggio operativo del suo primo tuìt sensato dopo una lunga sequela di angosciose banalità e di tonitruanti spavalderie, la bandiera senza commenti. Così gli avversari dell’impostore, già divisi su programmi di grottesca socializzazione dell’economia libera e fiorente del paese oggi più solido del mondo, hanno creduto bene di imporsi un’altra impostura, quella del pacifismo senza palle e senza un criterio politico effettuale, della rinuncia e dello “stare dietro le quinte”, che ha provocato eccidi e massacri infiniti in Siria, e rischia di pregiudicare la vita della democrazia israeliana nella regione, accerchiata da iraniani hezbollah e altro genere di terroristi islamisti. Trump si è affermato in una prospettiva di America First che era il contrario della leadership americana nel mondo e sapeva di isolazionismo e tradimento, come si è visto con la vicenda dei curdi del Rojava e in cento altre sbruffonate senza conseguenze, ora doveva essere chiamato alla coerenza con l’inevitabilità di una decisione presa su sollecitazione del Pentagono, cioè di una delle più informate e rispettabili istituzioni di Washington. Niente da fare.

 

 

Sulla politica estera e di sicurezza non si dovrebbe scherzare, divagare, arzigogolare. Non si imprigionano le ambasciate americane, devastandone i paraggi. Non si provocano truppe e basi uccidendo soldati e contractor di un paese che ha dimostrato di non avere alcuna mira territoriale o imperialista anche quando si affaccia sulla scena della destabilizzazione terroristica del mondo. Non si molla quando è in ballo Israele. Non si lascia la bandiera a un impostore la volta che ha fatto per obbligo la cosa giusta. Se lo si fa, le probabili conseguenze saranno le più sbagliate. E un errore politico, come si sa da secoli, è peggio di un crimine.

PUBBLICITÁ
Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ