Foto LaPresse

Sudan, il nuovo Golfo spiegato ai sonnambuli

Paola Peduzzi

Le milizie del deserto sono a Khartoum a fare razzia della primavera sudanese. Contano sul silenzio lì e dalle nostre parti

Milano. Il Nilo sta restituendo cadaveri, hanno i polsi legati, alcuni dei pesi ai piedi, tutti ferite orribili. Sono una cinquantina, ma il fiume ha i suoi tempi di restituzione e quanti ne vengono buttati dentro di preciso non si sa. La repressione in Sudan è iniziata lunedì, ci sono più di cento morti, sta scendendo il silenzio su una città che da mesi protesta pacificamente, balla, canta e urla: vogliamo fare le elezioni. Le immagini di festa e di speranza sono state sostituite da quelle terribili del Nilo e delle strade vuote. O meglio: piene delle divise della repressione, quelle delle Forze di sostegno rapido con i loro veicoli blindati.

 

I janjaweed, i razziatori del Darfur, gli uomini furiosi a cavallo che hanno ucciso, stuprato, depredato il paese per anni, oggi si chiamano così: Forze di sostegno rapide. Diecimila uomini – ma altri cinquemila stanno arrivando dal resto del paese – che prendono ordini da Mohamed Hamdan Daglo, detto “Hemeti”, o meglio “il terrore in divisa color sabbia”. Fin da quando è iniziata la protesta, i militari al governo si sono divisi in due: quelli legati all’esercito regolare e quelli legati alle Forze di sostegno rapido e all’intelligence. Sotto la pressione delle proteste, entrambi hanno presto trovato un accordo per destituire Omar al Bashir, il dittatore del Sudan per trent’anni, ma poi è iniziato uno scontro interno di cui naturalmente non conosciamo né i dettagli né l’esito finale ma che sta consegnando la regia della repressione e della cosiddetta transizione a Hemeti.

  

Secondo alcuni analisti, molti soldati dell’esercito regolare sono dalla parte dei manifestanti, così come il capo della giunta militare ora al governo, il generale Abdel Fattah al Burhan, che ancora due giorni fa ha cercato di riaprire il dialogo con la piazza, rappresentata dall’Associazione dei professionisti del Sudan che raccoglie le varie sigle della protesta. Ma Hemeti ha deciso diversamente, lui che è considerato un fedelissimo di Bashir ma quando guidava una divisione dei janjaweed lo ha tradito più volte, tornando soltanto in cambio di maggiore potere. Anche nelle settimane successive alla caduta di Bashir, a inizio aprile, il fedelissimo Hemeti si è intestato il comando dell’epurazione degli uomini più legati a Bashir. Poiché adora parlare in pubblico, Hemeti precisa spesso i numeri di questa “pulizia”, ma la sua arte oratoria si esprime al massimo quando sa di essere ascoltato all’estero.

 

Hemeti maneggia bene le parole che piacciono ai sostenitori della piazza e all’occidente – elezioni, transizione, processo democratico, sicurezza – e si mostra come l’unico che può proteggere e salvare il Sudan. Il suo obiettivo è rubare la rivoluzione ai sudanesi, diventare l’uomo forte del Sudan, riportare quella “stabilità” tanto cara ai regimi del Golfo suoi alleati e foraggiatori e che tutto sommato suona bene anche nei calcoli di convenienza che scandiscono la realpolitik europea e americana.

  

La soglia di violenza accettabile è alta

Hemeti, come i suoi alleati e come i dittatori di altre parti del mondo, ha capito che la soglia di violenza accettabile si è alzata parecchio. La tenuta di Bashar el Assad in Siria ha cambiato il paradigma per tutti: se ce l’ha fatta lui, c’è speranza per ogni dittatore. Le primavere arabe hanno fatto da sfondo perfetto: Bloomberg ha dedicato alla questione un editoriale due giorni fa in cui diceva che nel 2013 in Egitto il mondo si è voltato altrove e poi ha ricominciato a fare accordi e trattative con il presidente al Sisi e che ora in Sudan si rischia di ripetere lo stesso format, cade un dittatore e se ne fa un altro. E’ con questo timore che i manifestanti sudanesi hanno continuato a restare in piazza anche dopo la destituzione di Bashir, consapevoli della rapidità con cui i militari avrebbero ripreso e tenuto il potere.

 

Anche adesso che si muore per strada ammazzati dalle Forze di sostegno rapide, l’Associazione dei professionisti dice di non mollare, di continuare la protesta con uno sciopero, di ricostruire mattone per mattone le barricate tirate giù dalle milizie, così come per alcuni conviene riprendere il dialogo con il generale Burhan, un altro mattoncino contro Hemeti. Ma molti hanno paura, non soltanto ci sono i cadaveri che riaffiorano sul Nilo ma hanno visto i medici picchiati mentre aiutavano i feriti. C’è chi aspetta un aiuto dall’estero, questo è pur sempre il regime ricercato dal tribunale dell’Aia, basterebbe far valere qualche regola di diritto internazionale. Ma nei calcoli di convenienza dei governi occidentali si fa più di una deroga, e intanto paura e illusione si stanno sposando, nel silenzio delle strade della repressione di Khartoum.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi