Il leader del Brexit Party ed europarlamentare, Nigel Farage (Foto LaPresse)

La Lega non vuole fare la guerra all'Europa sulla proroga della Brexit

Gregorio Sorgi

I populisti europei (tra cui il Carroccio) rifiutano l'invito di Farage a bloccare l'estensione dell'Articolo 50. Nessuno vuole andare allo scontro con la Commissione

Roma. A sentire l’entusiasmo di Nigel Farage e dei suoi compagni euroscettici, la trattativa europea con la Lega per bloccare la proroga dell’Articolo 50 sulla Brexit sarebbe già in una fase avanzata. Tuttavia, fonti del Carroccio spiegano al Foglio che “una richiesta formale ancora non è arrivata, malgrado la grancassa mediatica degli ultimi giorni”. Il Brexit Party, il nuovo partito euroscettico di Nigel Farage, spera nell’aiuto dei suoi alleati sovranisti per bloccare la proroga dell’Articolo 50, che allungherebbe i tempi della Brexit. La premier Theresa May è intenzionata a chiedere una proroga al summit europeo del 21 e 22 marzo, per evitare il no deal, che invece è la soluzione caldeggiata dai brexiteers più accaniti come Farage. Ieri il presidente della Camera dei Comuni, John Bercow, ha detto che il Parlamento non può votare l’accordo della May per la terza volta – forse farà votare per vedere se c’è maggioranza per un altro voto sull’accordo – e la proroga rimarrebbe l’unica strada percorribile.

 

La richiesta dovrà essere approvata all’unanimità dai ventisette stati membri, e Farage spera nel voto contrario di uno dei suoi alleati populisti. Lo storico finanziatore dello Ukip, Arron Banks, ha sottolineato che “molti dei partiti euroscettici con cui abbiamo un rapporto ventennale oggi sono al governo… e potranno darci una mano”. Una chiara allusione alla Lega, che ha un antico legame di amicizia con Farage, pur non essendo parte dello stesso gruppo parlamentare in Europa. Fonti del Carroccio a Bruxelles confermano al Foglio che “l’offerta di Farage non è mai arrivata, ne abbiamo anche parlato con alcuni deputati inglesi che non sanno nulla. Se anche arrivasse questa richiesta, temo che per noi sarà difficile accettare. I nostri alleati di governo non vogliono una proroga”.

 

Né la Lega né il Movimento cinque stelle vogliono aprire un’altra crisi nel governo su un tema che interessa poco ai cittadini italiani. Il M5s non ha una posizione sulla proroga dell’Articolo 50, ma se tutta l’Europa dovesse votare a favore, anche il nostro governo si adeguerà. Lo ha ribadito il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ieri a Bruxelles: “Se la Gran Bretagna dovesse chiedere una proroga, l’Italia dirà di sì”. E i leghisti sono i primi a riconoscere che, in questo caso, non vale la pena cercare uno scontro con la Commissione europea. “Se il nostro paese dovesse bloccare la proroga dell’Articolo 50, l’Unione europea ce lo farebbe pagare in futuro, quando invece sarebbe utile ricevere più flessibilità da Bruxelles. Stavolta non vogliamo essere la pecora nera. Oltretutto, la Brexit non riguarda gli interessi nazionali dell’Italia”, conferma una fonte della Lega.

 

Semmai, il nostro paese avrebbe ogni interesse a concedere una proroga per evitare un’uscita brusca della Gran Bretagna dall’Ue. Settecento mila italiani vivono e lavorano nel Regno Unito, e temono le conseguenze di una “hard Brexit” sullo status dei cittadini europei. Inoltre, l’aumento dei dazi e delle barriere al commercio, causato dal no deal, sarebbe una pessima notizia per gli esportatori italiani. Il piano B dei brexiteers, viste le difficoltà di un’intesa con l’Italia, è di rivolgersi alla Polonia. Alcuni deputati conservatori, tra cui gli ex ministri Iain Duncan Smith e Owen Paterson, hanno chiesto il favore in un incontro con il ministro polacco per il Dialogo con l’Estero, Anna Maria Anders. Gli euroscettici del Pis che governano a Varsavia hanno un legame stretto con i Tory britannici, che appartengono al loro stesso gruppo al Parlamento europeo (Conservatori e Riformisti europei). Tuttavia, Varsavia difficilmente cercherà un altro scontro con l’Europa dopo essere già stata costretta a modificare la propria riforma giudiziaria a causa delle pressioni di Bruxelles. Lo stesso vale per il premier ungherese, Viktor Orbán, per cui ogni gesto di rottura con l’Unione europea potrebbe voler dire la sua esplusione dal Partito popolare europeo. 

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