Giuseppe Conte con Fayez al Sarraj (foto LaPresse)

Il fallimento libico

Redazione

L’Isis rivendica l’attacco a Tripoli. Tre questioni che ci riguardano: la sicurezza che non c’è, lo Stato islamico che non è stato ancora sconfitto e le condizioni dei migranti nel paese

Tre attentatori suicidi, un’auto carica di esplosivo, una sparatoria fuori e dentro il ministero degli Esteri a Tripoli, due morti (oltre agli attentatori) e una ventina di feriti. L’attacco di Natale nella capitale della Libia – l’auto si è avvicinata, due uomini sono entrati nell’edificio e si sono fatti esplodere all’interno mentre il terzo uomo è stato ucciso in una sparatoria; l’auto è esplosa, i veicoli parcheggiati hanno preso fuoco, la colonna di fumo è rimasta visibile per ore – è stato rivendicato mercoledì mattina dallo Stato islamico.

 

L’attentato ha riacceso l’attenzione su tre questioni che riguardano la Libia e riguardano noi: la prima ha a che fare con la sicurezza che non c’è, in un paese che avrebbe dovuto avviarsi verso una transizione politica per rimarginare la frattura enorme tra est e ovest e quelle più piccole, ma altrettanto pericolose, tra le diverse milizie che operano in modo autonomo e incontrollato sia sulla costa sia nel sud.

 

La seconda ha a che fare con lo Stato islamico, che in Libia come in Iraq e in Siria si è indebolito e ha perso città e territori conquistati, ma non è certo battuto. Se c’è una lezione che abbiamo appreso dai tormenti iracheni che ancora ci attanagliano è proprio la grande abilità di riorganizzazione dei gruppi jihadisti: lo Stato islamico festeggia da quando l’America di Trump ha annunciato il ritiro dalla Siria, rialza la testa, e ci ha appena dimostrato come.

 

La terza ha a che fare con il report pubblicato dall’Onu prima di Natale sulle condizioni dei migranti in Libia: gli sbarchi in Italia sono diminuiti; gli scontri con le navi che trasportano immigrati hanno scandito questi mesi con Matteo Salvini al ministero dell’Interno; sono morte in mare 1.300 persone nel 2018 (stima Onu); 6.800 persone, tra rifugiati e richiedenti asilo, sono rinchiuse nei centri di detenzione in condizioni disumane. Queste tre questioni indicano come buona parte delle politiche adottate nei confronti della Libia non abbia portato ad alcuna stabilizzazione, né politica né umanitaria. Il premier Conte è andato il 23 dicembre a Tripoli e a Bengasi per la sua mediazione, eterna e infruttuosa: il fallimento libico è anche il nostro.

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