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Editoriali

Cosa non torna nella Netflix italiana

Redazione

Perché creare un nuovo scatolone per fare ciò che dovrebbe già fare la Rai? Tutto quello che non convince nella proposta

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E’ passato poco più di un mese da quando il ministro per i Beni culturali (Mibact), Dario Franceschini, ha annunciato il cantiere per costruire la “Netflix italiana”. Detto fatto: la Cassa depositi e prestiti ha deliberato la costituzione di una società di cui deterrà il 51 per cento, quantificato in nove milioni di euro, mentre il restante 49 per cento sarà di Chili Tv. Altri 10 milioni arriveranno dal Mibact.

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E’ passato poco più di un mese da quando il ministro per i Beni culturali (Mibact), Dario Franceschini, ha annunciato il cantiere per costruire la “Netflix italiana”. Detto fatto: la Cassa depositi e prestiti ha deliberato la costituzione di una società di cui deterrà il 51 per cento, quantificato in nove milioni di euro, mentre il restante 49 per cento sarà di Chili Tv. Altri 10 milioni arriveranno dal Mibact.

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La mission della nuova piattaforma, al momento, appare un poco nebulosa: promuovere la cultura italiana nel mondo, ma anche dare un palcoscenico agli artisti emergenti, ma anche collegare l’offerta online ai servizi offline, quali la vendita di biglietti per musei e concerti. Oltre che sul finanziamento pubblico, il business plan si regge sull’ipotesi di ulteriori entrate, da pubblicità e vendite o abbonamenti, con l’obiettivo di “essere redditizia”. Sembra tutto lineare e logico, tranne una cosa: perché? Non è infatti chiara né la ragione di questa mobilitazione, né il suo obiettivo. Se – come sostengono i promotori – l’iniziativa è destinata a generare utili, perché impegnare i denari dei contribuenti in un momento difficilissimo per le nostre finanze pubbliche? Ma, soprattutto: che senso ha mettere in piedi l’ennesimo scatolone, quando ci sono già molte altre piattaforme (a partire da Netflix, quella vera) che, nell’ambito della loro programmazione, hanno anche prodotti legati al nostro paese e alla sua cultura?

 

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Più importante ancora, i contribuenti italiani già spendono 1,8 miliardi di euro l’anno per la Rai che, tra l’altro, ha un’ottima presenza online (RaiPlay). Ribadiamo quindi al ministro e alla Cdp le domande che il Foglio aveva già posto il 27 ottobre: per quale ragione non può essere la Rai (con quasi 2 miliardi) a fare quello che Chili e Cdp dovranno fare con 19 milioni? Se il governo ritiene che   Viale Mazzini non sia in grado neppure di promuovere la cultura italiana, obiettivo che rientra pienamente nel servizio pubblico, perché dovremmo continuare a pompare miliardi di euro nelle sue casse?

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