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L'analisi

La competizione nell’auto è ottima, ma attenzione al "know how"

Mariarosaria Marchesano

È rischioso pubblicizzare nuovi player dell’automotive prima di aver chiuso il delicato negoziato con Stellantis: alcuni appunti per il ministro delle Imprese Adolfo Urso nella sua strategia di tenere sotto pressione Tavares

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Mentre si diffondeva, nei giorni scorsi, la notizia che il colosso Dongfeng è pronto a produrre 100 mila auto in Italia, confermando così l’esistenza di una trattativa con il governo Meloni, il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, frenava dicendo che ci sono anche “altri produttori automobilistici a interloquire con il nostro dicastero”. Poi il silenzio. Che si tratti di una strategia di Palazzo Chigi per tenere sotto pressione Stellantis, che non fa mistero di avere ormai adottato un approccio di tipo globale per i suoi investimenti, oppure di ipotesi concrete, vale la pena chiedersi che tipo di impatto potrebbe avere sulla filiera della componentistica nazionale l’arrivo di un nuovo costruttore di veicoli nell’èra della transizione energetica e soprattutto se fa auto elettriche come Dongfeng, che sembra la più interessata.
 

Secondo gli ultimi dati presentati dall'Anfia in un'audizione al Senato, la filiera automobilistica europea conta 13 milioni di addetti, pari all'8,3 per cento della forza manifatturiera dell'area, rappresenta il 7 per cento del pil, investe 59 miliardi in ricerca e sviluppo - il 31 per cento del totale Ue - e contribuisce per quasi 400 miliardi al gettito fiscale europeo. In Italia, l'industria automotive conta 5.500 imprese per 272 mila addetti e fattura 100 miliardi (5,6 per cento del pil) di cui 60 miliardi riguarda il settore della componentistica. Le prospettive, però, non sono rosee: negli ultimi cinque anni l’Italia ha ceduto posizioni in Europa e con l’arrivo dell’elettrico si rischia di perdere fatturato perché un terzo delle componenti andranno fuori produzione.

“Abbiamo in corso un tavolo al ministero con Stellantis e Anfia per portare l’attuale produzione che è di 750 mila veicoli a un milione all’anno – ricorda al Foglio Ferdinando Uliano, segretario generale della Fim Cisl – A mio parere, la priorità in questa fase sarebbe mettere in sicurezza l’accordo che vuol dire salvaguardare il lavoro delle imprese e degli addetti dell’indotto. Poi si può discutere di chi arriva e a quali condizioni”. Per Uliano ha dunque poco senso pubblicizzare, come fa il ministro Urso, l’interesse di altri gruppi esteri per l’Italia in un momento in cui si sta chiudendo una trattativa così delicata con Stellantis, di cui Dongfeng, peraltro, è un partner. “Dell’accordo di cui stiamo discutendo – prosegue Uliano – fanno parte anche gli incentivi che il governo ha stanziato, ma che non si decide a rendere concreti facendo quasi intendere che può utilizzare le somme per attrarre altri produttori. Francamente, facciamo fatica a capire quale sia il disegno. Posso solo dire che non siamo contrari a una maggiore concorrenza a condizione che questo si traduca concretamente in un aumento dei volumi complessivi prodotti dal comparto auto e non in una sostituzione dei volumi prodotti da Stellantis in Italia”. Insomma, secondo il sindacato dei metalmeccanici, il colosso presieduto da John Elkann andrebbe prima di tutto “blindato sull’Italia e poi si discute di tutto il resto”.
 

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D’altra parte, il governo ritiene che la debolezza del comparto sia proprio quella di avere sempre avuto nella Fiat l’unico (maggior) produttore di auto dalle cui commesse dipende a cascata tutto l’indotto. “Negli altri paesi – ha fatto notare Urso – dalla Germania alla Francia, dalla Spagna alla Polonia, dalla Slovacchia all’Ungheria, vi sono da quattro a sette case automobilistiche e quindi credo che quest’anomalia vada presto colmata”. Per Urso ha senso approfittare di un momento in cui i player globali stanno guardando con interesse all’Europa per attrarne qualcuno in Italia. Le esperienze fatte finora con gruppi esteri, però, sono viste come fumo negli occhi da maestranze e imprese. Basti pensare alla DR Auto in Molise. Azienda con capitali cinesi e alleata di gruppi asiatici, assembla veicoli nell’unico stabilimento che impiega 150-200 addetti utilizzando componenti che arrivano dall’altra parte del mondo. “Non vogliamo che nel nostro paese prenda piede il Ckd, vale a dire il kit di parti sciolte per assemblare auto che avrebbe zero ricaduta sul territori”, dice Roberto Vavassori, presidente dell’Anfia. “Certe scintille mediatiche rischiano di pregiudicare il buon esito del tavolo negoziale governo-sindacati-Stellantis, i cui obiettivi andrebbero, invece, preservati: puntare a un milione di autoveicoli prodotti vuol dire aumentare di un terzo l’attuale produzione e di riflesso le forniture italiane”.
 

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La stessa Anfia, però, ha evidenziato che dal 2019 l’Europa ha perso circa 4 milioni di veicoli prodotti mentre la Cina è diventata di gran lunga il mercato di produzione più importante e che in questo contesto l’Italia è scivolata al settimo posto nella classifica dei produttori dell’area dell’Unione europea. Cercare di stimolare la competizione può essere positivo, no? “Certamente lo è – osserva Vavassori – se il valore aggiunto che si ottiene portando nuovi produttori è assorbito dalla filiera italiana dell’auto e se questo tipo di operazione aumenta il grado di partecipazione della filiera stessa alla produzione dell’elettrico aumentando il grado di ingegnerizzazione e di ricerca e sviluppo. Ma in questo momento il massimo sforzo dovrebbe essere proteso a consolidare l’impegno di Stellantis sull’obiettivo già delineato che vuol dire lavoro sicuro per le aziende fornitrici e subfornitrici”. Insomma, se da un lato la filiera nazionale dell’auto, per la sua eccellenza, può essere attrattiva per nuovi investitori, dall’altra, si confronta con un mercato globalizzato in cui il prezzo è un fattore discriminante e con una transizione energetica che mette a rischio almeno un terzo delle sue produzioni che non servono alle auto elettriche. Ma che cosa implicherebbe esattamente la presenza massiccia di un produttore estero, esiste un rischio di appropriazione di know how e tecnologie italiane da parte dei cinesi? “Certo che esiste e fa parte del gioco – osserva l’economista Lucio Poma, esperto di filiere produttive che da anni studia con il suo centro ricerche di Nomisma – Il costruttore per sua stessa natura usa le filiere e in qualche modo si appropria delle loro conoscenze. È un po’ inevitabile che questo accada. E così non sono contrario in linea di principio all’arrivo di nuovi produttori a patto che si interfaccino con i modelli produttivi locali. Cioè sarebbe un errore aprire le porte a una casa automobilistica che ha processi internalizzati e si rifornisce altrove per le sue componenti, strategia, peraltro, molto diffusa tra i colossi mondiali”. Poma ricorda il precedente del gruppo Faw (brand strettamente legato al governo cinese ma supportato anche da capitali americani) nella Motor Valley di Reggio Emilia, per intenderci quella dove si producono Ferrari, Maserati, Lamborghini, Ducati e Dallara. Nel 2020 (erano i tempi del governo Conte 2) annunciò che avrebbe investito un miliardo per le supercar ibride ed elettriche. Poi il progetto non solo è naufragato ma è finito nelle aule giudiziarie dimostrando che il tempo di una “Ferrari” cinese è ancora molto lontano.

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