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l'analisi

Sul decreto Lavoro, entusiasmi e catastrofismi senza senso della misura

Luciano Capone

Per Giorgia Meloni è "Il più importante taglio delle tasse”. Per Schlein "è una provocazione che ruba il futuro ai giovani". Entrambe fuori dalla realtà. Lo sgravio contributivo è più contenuto rispetto ai tagli di Draghi e Renzi, mentre la modifica del decreto Dignità è in linea con le proposte del Pd

Il dibattito sul Primo maggio e sul “decreto Lavoro” mostra che si è perso un po’ il senso della misura. Da un lato il governo presenta il suo decreto, simbolicamente approvato nel giorno della Festa dei lavoratori, come un provvedimento storico: “Il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”, ha detto Giorgia Meloni. Dall’altro le opposizioni descrivono le misure del governo approvate il Primo maggio come uno sfregio ai lavoratori e una devastazione del mercato del lavoro: “Il decreto è una provocazione insopportabile. Ruba il futuro alle prossime generazioni ed è una sentenza di condanna alla precarietà”, dice Elly Schlein. “È la restaurazione più becera, si uccidono i sogni dei giovani”, sostiene Giuseppe Conte.

 

Ma entrambe le descrizioni hanno a che fare più con la propaganda o il tifo da stadio che con la realtà, che è molto più sbiadita. Né misura storica né attacco ai diritti. Il taglio del cuneo fiscale prevede un innalzamento dell’esonero contributivo dal 2 al 7 per cento per i redditi fino a 25 mila euro, e dal 2 al 6 per cento per i redditi fino a 35 mila euro. Solo per il secondo semestre del 2023: da luglio a dicembre. Lo sgravio contributivo costare circa 4 miliardi. Non proprio una svolta che resterà impressa nei libri di storia e nella memoria degli italiani, nonostante il video propagandistico di una premier che si mostra alacremente al lavoro anche nei dì di festa.

 

Di sicuro è falsa l’affermazione sul “più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”, pure sommando a questi 4 miliardi i 4,6 miliardi di taglio dei contributi inserito in legge di Bilancio. Il governo Draghi stanziò 7 miliardi per la riforma dell’Irpef (che a differenza di questa decontribuzione è strutturale) più circa 3 miliardi per una riduzione temporanea di 2 punti dei contributi, poi prorogata dal governo Meloni. In totale fanno 10 miliardi. Come si vede, Draghi aveva tagliato di più le tasse rispetto a Meloni. Così come, ad esempio, aveva fatto il governo Renzi introducendo il cosiddetto “bonus 80 euro” che costata circa 10 miliardi di euro, strutturali. Pensare che uno sgravio a termine sia il più importante taglio delle tasse degli ultimi decenni, tanto da presentarlo in pompa magna, vuol dire non saper fare di conto. Ma il governo dovrà imparare presto per preparare la prossima legge di Bilancio, perché andranno trovati 12 miliardi e passa per rifinanziare il taglio dei contributi in scadenza mentre c’è da fare un aggiustamento fiscale.

 

La stessa mancanza di senso della misura, però, c’è nel grido di dolore di Schlein e Conte contro il decreto che “ruba il futuro alle prossime generazioni” e “uccide i sogni dei giovani”. Un “insulto” al Primo maggio, l’ha definito una deputata del Pd. Il riferimento è alla modifica della disciplina sui contratti a termine, che per i contratti tra 12 e 24 mesi codifica tre causali per la proroga (che però non ecceda i 24 mesi): casi previsti dai contratti collettivi; esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva; sostituzione di altri lavoratori. Non è uno stravolgimento della normativa attuale, non è una “liberalizzazione” selvaggia, non è un ritorno al “far west”, ma semplicemente il superamento di alcune rigidità del decreto Dignità approvato nel 2018, contro cui all’epoca si schierò il Pd proprio per le criticità che presentava (come ha ricordato Marco Bentivogli su Repubblica, dopo il decreto Dignità nel 2019 un terzo dei contratti a termine era inferiore alla settimana).

 

Il decreto Lavoro è una via di mezzo tra la flessibilità del Jobs act del Pd, che consentiva rinnovi per tre anni senza causali, e la rigidità del decreto Dignità del M5s, che ha un sistema molto restrittivo delle causali per il rinnovo dopo il primo anno. Peraltro, la modifica del ministro del Lavoro Marina Calderone che rinvia alle causali previste dai contratti collettivi era una richiesta di alcuni sindacati. Ed era anche una proposta del Pd già nel 2018, che il partito di Elly Schlein era riuscito a far inserire nel decreto Sostegni-bis del governo Draghi come misura temporanea fino a settembre 2022. In sostanza, su questo punto, il governo Meloni si è ispirato al Pd. È probabile che la norma aggiungerà solo confusione e burocrazia, ma non è un affronto ai lavoratori né una violazione dei diritti umani. Se non il senso della misura, si mantenga almeno quello del ridicolo.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali