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Il reddito di cittadinanza si cambia separando le misure per la povertà da quelle per il lavoro

Marco Leonardi

Perché basterebbe ritornare al reddito di inclusione, per cui prima ci si presenta al centro dell’impiego e poi solo dopo si inizia a ricevere il beneficio, per risolvere gran parte di ciò che non va nel RdC

Evidentemente a caccia di fondi per poter finanziare la riforma delle pensioni e la flat tax, il governo aveva inizialmente pensato di ridurre il reddito di cittadinanza (addirittura “abolire” aveva detto Meloni in campagna elettorale, pur di sottrarre voti alla Lega ha presumibilmente perso voti al Sud). Adesso più prudentemente, per ottenere i risparmi desiderati, si sono diretti verso una stretta del Superbonus 110 per cento e, forse, verso una stretta sulle detrazioni fiscali per i contribuenti più abbienti. Sono infatti ben note le difficoltà di ridurre il reddito di cittadinanza, politiche e tecniche. Politiche perché in tempi di recessione incombente è difficile ridurre le misure per i poveri. Perfino in Germania in questi tempi di crisi c’è una proposta di ridurre la condizionalità ai beneficiari dei sussidi di disoccupazione: saranno resi meno stringenti i requisiti di ricerca di un posto di lavoro per chi riceve i benefici. Ma in Germania si distinguono le misure per la povertà da quelle per il lavoro e la riforma riguarda l’assistenza di chi ha lavorato in passato, ha ottenuto e finito il sussidio di disoccupazione e ora riceve a tempo indefinito una assistenza di ultima istanza, ma con obbligo di cercare un lavoro attraverso i centri dell’impiego. Da noi invece il reddito di cittadinanza copre sia chi è in grado di lavorare sia chi non lo è. C’è anche un tema di come si definisce “chi è in grado di lavorare”, per esempio da noi chi non ha un’occupazione regolare da più di due anni o ha finito il sussidio di disoccupazione da più di un anno non è più ritenuto in grado di lavorare e quindi non gli si applica la condizionalità del reddito di cittadinanza, in altre parole abbiamo saltato un ciclo di 10 anni delle misure di aiuto al reddito e siamo già come la Germania vuole diventare ora, da noi però il lavoro nero è ben più diffuso e potenzialmente chi non ha mai lavorato “in chiaro” non è tenuto ad andare al centro dell’impiego.

   

E’ anche nota la difficoltà tecnica di una eventuale stretta. Il sussidio viene percepito dai nuclei familiari e non dagli individui: se un componente della famiglia è ritenuto idoneo al lavoro, tutta la famiglia viene mandata al centro dell’impiego per cui togliendo l'aiuto ai beneficiari che teoricamente sono abili al lavoro si metterebbe in difficoltà l’intera famiglia di cui fanno parte. Non si può quindi fare proprio nulla? Qualcosa si può fare per migliorare il reddito di cittadinanza senza stravolgerlo.

 

Il 40 per cento dei nuclei beneficiari del reddito sono nuclei composti da una sola persona, certo alcuni di loro hanno più di 50 anni e la maggioranza ha un titolo di studio molto basso. Ma comunque si tratta di centinaia di migliaia di persone alcune delle quali in grado di lavorare (se non a volte che già lavorano con un reddito molto basso) e non hanno una famiglia da mantenere. Oggi la procedura funziona così: si fa la domanda a Inps e se si rispettano i requisiti si ottiene subito il beneficio; solo dopo si è tenuti a presentarsi al centro dell’impiego. Se si mantengono i requisiti nel tempo il beneficio si può mantenere a tempo indefinito a intervalli di 18 mesi. Ovviamente un sistema siffatto produce il risultato che chi ottiene il beneficio teme di perderlo per cui non si presenta volentieri a un centro dell’impiego. A Milano per esempio alla prima chiamata rispondono due percettori su dieci. E’ anche difficile costringere le persone a partecipare. Il problema come spesso capita sta nella responsabilità amministrativa, non nelle norme. Nessuno vuole giustamente togliere il beneficio senza essere sicuro al 100 per cento. Teoricamente, la mancata convocazione che fa scattare la decurtazione può avvenire solo a seguito di raccomandata con ricevuta di ritorno. I Centri per l’Impiego per limiti di organico faticano a tenere il passo. Le condizioni per rendere possibile quanto previsto dalle norme non ci sono ancora: per la lentezza delle assunzioni tra gli operatori pubblici e per i sistemi informativi ancora da migliorare. E’ quindi perfettamente inutile insistere sul numero di rifiuti di offerte congrue di lavoro, senza prima operare per rendere più semplice l’attuazione delle decurtazioni o del decadimento del beneficio a seguito della mancata partecipazione alle politiche attive.

 

Allo stato delle cose – come è noto – non si realizza nessuna offerta congrua di lavoro. Il datore di lavoro vuole conoscere le persone che intende assumere e attiva procedure di ricerca e selezione: per il percettore di RdC che non intende mettersi in moto è sufficiente mostrarsi poco adatto e l’offerta non la riceverà mai. D’altra parte le imprese non sono certo interessate a lavoratori con un labile attaccamento al lavoro né tantomeno a denunciarle se rifiutano un’offerta. Basterebbe invertire la procedura, come peraltro funzionava nel reddito di cittadinanza versione 1.0, il reddito di inclusione, per cui prima ci si presenta al centro dell’impiego e poi solo dopo si inizia a ricevere il beneficio, per risolvere gran parte del “problema” del reddito di cittadinanza. Ovviamente i centri dell’impiego devono essere in grado di funzionare e di convocare tutti subito, del resto negli anni ci sono stati molteplici potenziamenti del personale (non solo i navigator) che però solo alcune regioni hanno portato a termine – e questo è un altro discorso in attesa magari della discussione sull’autonomia differenziata.

   


      

Marco Leonardi, professore ordinario di economia all'università statale di Milano, è stato tra il 2021 e il 2022 tra i consiglieri economici dell'ex presidente del Consiglio Mario Draghi. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con il Foglio

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