La nuova Meloni "europeista" alla prova del Mes

Luciano Capone

Sarà complicato per la leader di Fratelli d'Italia chiedere sovvenzioni all'Unione europea mentre l'Italia, unico paese dell'eurozona, blocca la ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità. Alle recenti richieste di "risposte comuni europei" sarà necessario far seguire i fatti

Già prima delle elezioni, ma soprattutto dopo, Giorgia Meloni ha curvato le sue posizioni sovraniste verso una linea impregnata di spirito europeista: “Nessuno stato membro può offrire soluzioni efficaci da solo, in assenza di una strategia comune, neppure quelli che appaiono meno vulnerabili sul piano finanziario”, ha detto invocando “una risposta immediata a livello europeo” contro la crisi energetica. Per rendere credibile questo afflato europeista, Meloni però dovrebbe dare qualche segnale tangibile. A partire dal Mes.

 

Il Meccanismo europeo di stabilità è in una situazione abbastanza complicata. In primo luogo c’è da nominare il nuovo direttore esecutivo, in sostituzione del tedesco Klaus Regling il cui mandato scade il prossimo 7 ottobre. La situazione è di stallo visto che fino a poco fa i candidati erano tanti e ora non c’è nessuno. Tra i papabili c’era anche Marco Buti, uno degli italiani con più esperienza a Bruxelles, che ha però ritirato la candidatura, anche perché la posizione dell’Italia è molto debole visto che è l’unico paese insieme alla Germania a non aver ratificato il nuovo trattato del Mes (su questo torneremo più avanti). Erano rimasti in lizza il portoghese João Leão e il lussemburghese Pierre Gramegna, ma entrambi si sono ritirati perché nessuno è riuscito a raccogliere l’80% dei voti necessari (attribuiti in base alle quote di capitale) per essere eletto.

 

E così, per il momento resta Regling, con qualche problema legale dato che il trattato escluderebbe la permanenza oltre la scadenza del mandato. Ma alla fine è stato stabilito internamente che lo storico direttore esecutivo del Mes può restare in prorogatio purché non prenda “decisioni importanti”, mentre i governi dell’Eurozona trovano un accordo che con tutta probabilità sarà rinviato a dopo la formazione del nuovo governo italiano. L’Italia, infatti, con una quota del 18%, pur non avendo un diritto di veto come Germania e Francia, è vicinissima alla soglia del 20% necessaria a sbloccare l’impasse. Il tema, ovviamente, non riguarda solo il nome, ma il futuro del Mes. Perché l’Italia è anche, di fatto, il paese che blocca il nuovo trattato del Mes. La riforma, approvata con molte difficoltà dal governo Conte, modifica le condizioni per la concessione di assistenza finanziaria ma non introduce meccanismi penalizzanti per il debito italiano, come pure si era paventato, anzi attribuisce al Mes la funzione di fornire una rete di sicurezza finanziaria (backstop) al Fondo di risoluzione unico per la gestione delle crisi bancarie.

 

Dopo l’approvazione dei governi tutti i paesi soci, attraverso il voto dei parlamenti, hanno ratificato il nuovo trattato. Eccetto la Germania e l’Italia. Ma la situazione tra Berlino e Roma è profondamente differente. Perché in un caso c’è un intoppo giuridico, nell’altro un problema politico. Il Bundestag, infatti, nel giugno del 2021 ha approvato dopo un breve dibattito la legge di ratifica. Solo che il processo è stato arrestato da un ricorso alla Corte costituzionale federale da parte di alcuni deputati liberali. Ma il presidente della Repubblica Steinmeier firmerà la ratifica subito dopo che si sarà espressa la Corte di Karlsruhe, sul cui giudizio non ci sono molti dubbi. Il caso dell’Italia è nettamente diverso: la ratifica non è arrivata in Parlamento perché manca la volontà politica. E, più in particolare, quella della nuova maggioranza di governo dato che i principali partiti del centrodestra, Fratelli d’Italia e Lega, si sono radicalmente opposti alla riforma del trattato, usando peraltro argomenti distorti e presentando il Mes come un organismo che attenta alla sovranità nazionale.

 

Il governo Draghi aveva provato a mandare avanti il dossier, ma si è dovuto fermare per le evidenti tensioni nella maggioranza (la Lega su tutti). A febbraio, il ministro dell’Economia Daniele Franco aveva annunciato l’intenzione di “presentare il disegno di legge di ratifica alle Camere” per dare seguito “agli impegni assunti dall’Italia nei confronti dei partner europei”. Ma scoppiò il caos. Matteo Salvini disse che non si doveva parlare di Mes “nel momento in cui c’è gente che muore sotto le bombe”. Mentre Giorgia Meloni, da leader dell’opposizione, fu molto più netta: “Noi dobbiamo pretendere che l’Unione europea crei un fondo cospicuo per ristorare le nazioni che saranno maggiormente colpite dalle sanzioni – disse alla Camera sommersa dagli applausi di FdI –. Però, attenzione, parlo di soldi a fondo perduto, non parlo di altri debiti per stringerci ancora il cappio intorno al collo! Parlo dell’esatto contrario di quello che si rischia di fare quando ci si appresta ad approvare la riforma del Mes contro la quale annuncio che la nostra opposizione sarà totale”.

 

Ecco, se la posizione di Meloni è chiedere all’Europa sovvenzioni mentre blocca, unico paese dell’Eurozona, la riforma del Mes sarà difficile per l’Italia ottenere qualcosa. È una posizione che ricorda l’arroccamento à la Orbán e che cozza con gli odierni appelli a “una strategia comune” europea. Un’apertura di Meloni sulla ratifica del Mes dimostrerebbe ai partner europei con i fatti quanto sia sincero il suo spirito europeista. Certo, significherebbe rinnegare una battaglia sovranista, ma non sarebbe l’unica. E produrrebbe una tensione con Salvini, ma anche quella non sarebbe l’unica. Saranno, probabilmente, due caratteristiche ricorrenti del nuovo governo.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali