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caro energia

Il flop della tassa sugli extraprofitti

Alberto Chiumento

“E' scritta male, per questo non pagano”. Parla il professore Dario Stevanato

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Il termine per pagare l’acconto del 40 per cento dell’imposta straordinaria sugli extraprofitti per le società energetiche era il 30 giugno. Ma dei 4,2 miliardi di euro che il governo prevedeva di ottenere, ne ha incassati appena 1,2. Oggi scade il secondo termine: chi non ha ancora versato può dare il dovuto pagando una sanzione del 15 per cento, che da domani salirà direttamente al 60 per cento, come stabilito dal governo per spingere le imprese a pagare. E’ però probabile che molte società non paghino nemmeno entro questa scadenza.

 

“Sarebbe la naturale conseguenza del comportamento che molte società energetiche hanno scelto di adottare finora”, dice al Foglio Dario Stevanato, avvocato e professore ordinario di Diritto tributario all’Università di Trieste. Ma perché le aziende non pagano? “Ci sono vari motivi che spiegano il loro rifiuto, pur ricordando che alcune hanno scelto di corrispondere l’acconto. La tassa è stata scritta male, in modo impreciso. Invece di individuare come base imponibile gli utili o un indice di redditività – i modi migliori per cercare di isolare gli extraprofitti – è stato preso in considerazione ‘l’incremento del saldo tra le operazioni attive e quelle passive’, che però non serve a intercettare gli extraprofitti, dato che è un dato influenzato da moltissime variabili. Anche l’intervallo di tempo su cui fare i calcoli è discutibile perché include un periodo, l’autunno del 2020, in cui i prezzi erano influenzati dallo stop pandemico. Credo poi che il governo abbia sbagliato a non ascoltare le imprese quando hanno indicato che la legge era poco chiara. Il loro obiettivo non era aggirare la norma, ma migliorarla”.

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C’è poi un secondo motivo, ben più solido, che sollevano le società. “Molte ritengono che la tassa sia incostituzionale per come scritta e per questo hanno fatto già ricorso al Tar del Lazio”. Ma allora perché non pagare nei tempi stabiliti, evitando le sanzioni, e fare ricorso successivamente, come avviene di solito? In una conferenza stampa recente, Mario Draghi ha anche espresso in modo netto la sua irritazione per questo rifiuto in un momento di grossa difficoltà economica per molte famiglie e imprese. Il gettito di questa imposta era stato stanziato per intervenire sul caro bollette. “Perché le società stanno seguendo una strategia prudenziale, memori di quanto successo nel 2015”. In quella circostanza, la Corte costituzionale stabilì l’incostituzionalità di un’imposta sugli extraprofitti, chiamata Robin Hood Tax, simile a quella attuale.

 

Tuttavia, la Corte non dispose la restituzione del denaro versato dalle società fino a quel momento (7 anni in totale) perché ciò avrebbe gravato troppo sui conti pubblici nazionali, particolarmente precari in quel momento. Secondo Stevanato, quindi, la possibilità di ottenere in tribunale la ragione, ma non il rimborso, ha spinto molte imprese a non pagare. “E’ più conveniente pagare un’imposta e la sanzione qualora l’imposta venga giudicata buona, piuttosto che non ricevere il denaro indietro pur sapendo di aver ragione. E’ un comportamento del tutto razionale visto il precedente e il testo della norma.” Anche il modo in cui il governo vuole far rispettare gli obblighi non è perfetto. “Superato un certo periodo di ritardo”, spiega Stevanato, “la sanzione è solitamente pari al 30 per cento, ma con il decreto “Aiuti bis” il governo ha aumentato l’aliquota al 60 per cento. Agire in modo retroattivo, cioè a violazione già avvenuta, però non va bene”. 


Il Tar si esprimerà sulla natura della norma l’8 novembre. Per evitare questo però il governo avrebbe potuto agire in modo più pragmatico, come fatto da quello britannico. Dopo una prolungata opposizione interna, a fine maggio il governo di Boris Johnson ha introdotto un’imposta nella forma di un’addizionale del 25 per cento, in aggiunta alla presente aliquota del 40 per cento, sui profitti realizzati dalle società che commerciano petrolio e gas sul territorio britannico. 

 

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Sempre a proposito di Ires, ovvero l’imposta (del 24 per cento) che le società pagano sugli utili che producono, per Stevanato dimostra che il governo potrebbe anche aver sbagliato i conti. “Sarei molto sorpreso se fosse così, però i numeri sono molti grandi: dall’imposta sugli extraprofitti lo stato ha calcolato di raccogliere 10,5 miliardi in totale, equivalenti a un terzo del gettito che viene ottenuto annualmente con l’Ires: siamo certi che una manciata di imprese, circa 11 mila secondo il ministero dell’Economia, creino un gettito così elevato?”

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