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Il gran rifiuto sindacale e la débacle dei corpi intermedi

Dario Di Vico

I sindacati travolti dal populismo. Lo sgarbo alla Cisl di Cgil e Uil, che pur invitati preferiscono disertare: un siluro preventivo al rilancio di quel patto sociale che Sbarra considera prioritario

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Come è noto i leader sindacali sono logorroici. Eppure ieri Pierpaolo Bombardieri e Maurizio Landini hanno opposto il gran rifiuto: avrebbero dovuto parlare dal palco del congresso Cisl e invece non si sono presentati. Il gesto, o se preferite il sacrificio, purtroppo non reca niente di positivo e oltre a introdurre una forte divisione tra le sigle confederali non può che essere interpretato come un siluro preventivo al rilancio di quel patto sociale che la Cisl di Sbarra considera un obiettivo da perseguire senza se e senza ma. L’unità d’azione dei tre sindacati ne risulta minata e con essa diminuisce anche il peso contrattuale di ciascuna delle confederazioni: se uno più uno più uno in teoria può diventare quattro, Bombardieri più Landini fanno tutt’al più uno e mezzo. Avremo tutto il tempo per capire se lo schiaffo del congresso si rivelerà un episodio minore oppure segnerà con la sua teatralità il tramonto definitivo della forza sindacale, la prima conclusione che si può trarre riguarda sicuramente l’incapacità dell’associazionismo di fare argine al populismo.

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Come è noto i leader sindacali sono logorroici. Eppure ieri Pierpaolo Bombardieri e Maurizio Landini hanno opposto il gran rifiuto: avrebbero dovuto parlare dal palco del congresso Cisl e invece non si sono presentati. Il gesto, o se preferite il sacrificio, purtroppo non reca niente di positivo e oltre a introdurre una forte divisione tra le sigle confederali non può che essere interpretato come un siluro preventivo al rilancio di quel patto sociale che la Cisl di Sbarra considera un obiettivo da perseguire senza se e senza ma. L’unità d’azione dei tre sindacati ne risulta minata e con essa diminuisce anche il peso contrattuale di ciascuna delle confederazioni: se uno più uno più uno in teoria può diventare quattro, Bombardieri più Landini fanno tutt’al più uno e mezzo. Avremo tutto il tempo per capire se lo schiaffo del congresso si rivelerà un episodio minore oppure segnerà con la sua teatralità il tramonto definitivo della forza sindacale, la prima conclusione che si può trarre riguarda sicuramente l’incapacità dell’associazionismo di fare argine al populismo.

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Le democrazie del ’900, in virtù della grande influenza dei partiti di sinistra, si legittimavano concedendo ai sindacati il monopolio della rappresentanza sociale e in cambio ne ricevevano conforto e in qualche caso anche appoggio esplicito, come nello stracitato esempio della concertazione alla Ciampi. L’Opa del populismo sulla diseguaglianza ha però terremotato questo paesaggio e, grazie anche all’affermarsi delle tecnologie social, ha ridotto seccamente lo spazio della mediazione sociale.

Si continua a prendere la tessera di Cgil-Cisl-Uil, si sottoscrivono e si approvano i contratti di categoria e ancor più quelli raggiunti in azienda, ma poi alle urne si scelgono le formazioni populiste. Tra gli operai il Pd è il quarto partito e le formazioni alla sua sinistra raccolgono briciole. Tutto ciò è stato paragonato a una sorta di zapping della rappresentanza e ha indotto leader sindacali come Bombardieri e Landini a lasciare da parte il lessico della responsabilità (i patti sociali) e a mettersi al vento. Finora i risultati di questo riposizionamento tattico non sono stati significativi, ma evidentemente perseverare è diabolico. Se fosse cosa che riguarda il mero potere sindacale, potremmo tranquillamente volgere lo sguardo altrove; ma penso che il tema dello spazio sociale delle democrazie degli anni Venti meriti tutta l’attenzione necessaria, perché solo riempiendolo si potrà silenziare la litania – molto in voga nella echo chamber della sinistra italiana – secondo la quale Trump ha perso ma i suoi elettori hanno vinto e chi ha votato Le Pen aveva tutto sommato ragione. Ma soprattutto si potrà evitare di vivere con una Vandea sempre alle porte o peggio in una democrazia senza demos. I corpi intermedi, come suggeriva un’ottima ricerca di Astrid, Fondazione per la Sussidiarietà e Ipsos (ottobre 2020) hanno bruciato buona parte del credito accumulato nei decenni passati, mentre – cito – dovrebbero assicurare il collegamento tra istituzioni e cittadini, rappresentare gli interessi inascoltati e supplire alle carenze dell’attore pubblico. Ed è per questo, oltre che per le bizze dei loro leader, che non sono un argine contro il populismo.

 

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Detto questo sarebbe un errore imperdonabile lasciare la Cisl isolata. La sua dirigenza ha compiuto negli anni molti errori, ha dilapidato la primogenitura culturale che aveva portato i suoi intellettuali a individuare il ruolo di un moderno sistema delle relazioni industriali, ha favorito all’interno il prevalere di posizioni di rendita e privilegio ma rappresenta pur sempre un interlocutore che ha presente quale sia l’agenda dei veri problemi ed è disposto a reinvestire sul valore della mediazione sociale. Non è poco.

Vedremo se Luigi Sbarra sarà all’altezza della sfida che si apre per la sua organizzazione e se saprà farne un crocevia del pensiero sociale più avanzato e meno beghino. Nell’attesa che si delineino nuovi processi sindacali va ribadito però che lo spazio sociale delle democrazie degli anni Venti ha bisogno di altri apporti, non può vivere solo della relazione con i confederali. A cominciare dal dialogo con il lavoro autonomo e i suoi valori, che hanno sì contaminato gran parte dei mutamenti della società contemporanea (si pensi solo allo smart working e al passaggio dalla mansione al ruolo) ma non hanno impedito che gli indipendenti perdessero in peso quantitativo e retribuzioni. E’ purtroppo il riflesso dell’anomalia italiana, che mescolando una manifattura di caratura europea e un terziario low cost condanna il paese a rappresentare la carrozza di coda nella corsa all’innovazione. Per ricostruire il demos delle nostre società però gli ingredienti più preziosi li apporta il terzo settore, che ha il grande vantaggio di aver saputo fare i conti con gli errori del Novecento. Laddove per i socialdemocratici di tutte le correnti rappresentare i diseguali era anche, e a volte soprattutto, un instrumentum regni il non profit italiano ha saputo rovesciare le priorità. Ha lasciato in secondo piano l’attrazione luciferina per il potere e ha tenuto al centro la missione originaria. Possono la cultura e l’esperienza del terzo settore diventare quel prezioso anticorpo che evita alle nostra società la sottomissione al populismo identitario? La risposta non è facile, si può solo invitare a guardare che cosa sta avvenendo sul campo in queste settimane. L’accoglienza verso i profughi ucraini, intermediata dalle onlus spesso in funzione di supplenza delle istituzioni, ha raccolto un ampio favore da parte degli italiani sia direttamente come ospitanti sia indirettamente come donatori. Non era scontato.

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