(foto EPA)

Sull'inflazione la Fed è in ritardo, ma meno di quanto si pensi

Riccardo Trezzi

La Federal reserve si è mossa almeno un trimestre dopo rispetto a quanto avrebbe dovuto. Ma la buona notizia è che non si è mostrata passiva nel controllare l'aumento dei prezzi

Secondo la teoria economica, i tassi d’interesse sono fissati dalla Banca centrale seguendo una regola (c.d. “Taylor rule”) con l’obiettivo di minimizzare gli scostamenti dell’inflazione dal target prefissato e di stabilizzare il ciclo economico attorno al sentiero di crescita. Utilizzando la versione moderna della Taylor rule, James Bullard – presidente della St. Louis Fed – ha mostrato in una recente presentazione che negli Stati Uniti il tasso di rifinanziamento principale dovrebbe essere al 3,5 per cento circa. Il valore calcolato è molto superiore al livello effettivo (tra lo 0,25  e lo 0,50 per cento) e ha indotto alcuni commentatori a sostenere che la Fed sia in ritardo nel controllo dell’inflazione (il settimanale The Economist ha addirittura parlato di “errore storico”). La Fed, dal nostro punto di vista, è in ritardo nel posizionamento dei tassi ma meno di quanto si pensi. E per capire il perché occorre ripercorrere la storia recente dell’inflazione e dell’andamento dei tassi d’interesse negli Stati Uniti.

L’inflazione al netto della componente energetica e alimentare ha iniziato a surriscaldarsi nella primavera del 2021 ma per i primi tre-quattro mesi l’accelerazione è principalmente imputabile a una sola componente (i beni durevoli, in particolare le auto usate). Tra la fine dell’estate e l’autunno 2021, però, i prezzi hanno registrato incrementi sempre più diffusi ed è in questo periodo che l’esitanza della Fed è descrivibile come errore di politica monetaria. Tuttavia, una moderna banca centrale opera non solo attraverso l’effettivo regolamento dei tassi ma utilizza anche la comunicazione per influenzare l’andamento degli stessi senza dover necessariamente agire su di essi. In altre parole, a una banca centrale moderna basta parlare segnalando la volontà di agire nel prossimo futuro per ottenere da subito l’effetto desiderato. E questo è quello che la Fed ha fatto a partire da novembre quando, accortosi dell’errore di analisi, Jerome Powell ha comunicato che l’uso del termine “transitoria” per connotare la dinamica inflativa non era corretto e che i tassi sarebbero saliti non appena possibile.

 

A seguito del cambio di tono della Fed, sia i tassi a breve sia quelli a lungo termine sono aumentati notevolmente seppur, come detto in precedenza, il tasso di rifinanziamento principale (ovvero il tasso controllato dalla Fed) rimanga ancora oggi vicino allo zero. Da novembre il rendimento dei titoli di stato americani a due anni è aumentato di circa 100 punti base mentre il tasso offerto sui mutui trentennali è passato da poco più del 3 per cento a quasi il 5,5 per cento. Come prevedibile, il rialzo dei tassi ha già iniziato ad avere effetti sull’economia reale. Solo per fare un esempio, la rata mensile per un mutuo su un immobile di valore mediano è passata da circa 1.000 dollari a metà 2021 a oltre 1.700 dollari oggi. E non è un caso, infatti, che le richieste di nuovi mutui siano in marcata decelerazione.

Insomma, si può accusare la Fed di avere temporeggiato troppo la scorsa estate ma l’evidenza dei numeri è chiara: da novembre a oggi la Fed ha messo in atto una politica monetaria fortemente restrittiva. E poco conta che non abbia ancora alzato il tasso principale (cosa che farà nel meeting del 3-4 maggio, a conferma di quanto annunciato in precedenza) poiché gli effetti finali sull’economia sarebbero stati gli stessi. Non solo, ma non è chiaro se (e come) le dinamiche inflative sarebbero state diverse nel caso in cui la Fed avesse cambiato registro comunicativo prima di quanto fatto. Questo poiché il tempo nella dimensione macroeconomica non si conta in giorni ma in trimestri: la Fed è in ritardo ma lo è, nell’interpretazione più sfavorevole, di circa un trimestre, ovvero un tempo relativamente breve. Quello che conta, invece, è che la banca centrale americana è oggi determinata a controllare l’inflazione e lo ha dimostrato nei fatti. La buona notizia è che la storia ci insegna che quando questo avviene, i prezzi tendono a moderarsi con il tempo.

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