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I limiti e i paradossi del regolamento europeo anti Big Tech

Il Digital Markets Act intende promuovere la concorrenza ma rischia di ingessare il mercato

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Oggi si terrà quello che Consiglio e Parlamento sperano essere l’ultimo trilogo in cui approvare il Digital Markets Act (Dma), il regolamento con cui l’Europa vorrebbe spezzare le reni ai monopolisti digitali. I dettagli sono complessi ma l’idea di base è semplice: le grandi piattaforme online hanno troppo potere  e devono, pertanto, attenersi a una serie di vincoli per consentire di ripristinare la concorrenza.

 

Dal punto di vista teorico, il fondamento del Dma sta negli effetti di rete: le Big Tech sono cresciute a un livello tale da poter alzare barriere insormontabili per la nascita di concorrenti. Dunque, non sarebbe sufficiente l’applicazione delle norme esistenti in materia di concorrenza, mercato unico digitale e tutela dei consumatori. Occorre una specifica regolazione ex ante. Da qui derivano una serie di presidi finalizzati a ricondurre il confronto competitivo su un terreno di parità: tramite obblighi e divieti concernenti il trattamento e la portabilità dei dati, l’interoperabilità dei sistemi, la possibilità di caricare applicazioni non approvate dai produttori del device o del sistema operativo.

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È però un ragionamento circolare: i colossi del web sono invincibili perché sono grandi oppure sono grandi perché invincibili?

Se fosse vera la prima ipotesi,  la strada verso la posizione dominante e la lotta per il suo mantenimento sarebbe costellata di abusi, e allora non si capisce la necessità di una nuova norma. E infatti negli ultimi anni la Commissione e le autorità nazionali hanno elevato sanzioni a spron battuto, a riprova che le leggi esistono e basta applicarle. La Commissione dice che i tempi sono troppo lunghi, ma forse c’è anche un po’ di coda di paglia, visto che spesso la Corte di giustizia ne ha messo in discussione le decisioni.

Se fosse vera la seconda, vorrebbe dire che i cosiddetti Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) si sono imposti perché hanno reso servizi migliori rispetto ai  concorrenti.

 

Si potrebbe poi aggiungere che ciascuno è dominante in un mercato che ha contribuito a creare, e che ciascuno lo è in modo differente, opera secondo pratiche diverse e persegue obiettivi specifici. Si potrebbe infine sottolineare che non è vero che queste imprese non abbiano concorrenti: intanto competono le une con le altre per conquistare il tempo e l’attenzione dei consumatori, e poi devono ogni giorno fronteggiare gli attacchi dei newcomer, da Zoom a Telegram.

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A Bruxelles, però, non ci vanno tanto per il sottile e il nodo gordiano l’hanno tagliato alla radice: il negoziato è stato particolarmente intenso proprio sulle soglie oltre le quali una piattaforma è considerata “gatekeeper” e pertanto esposta ai rigori del Dma. Secondo le anticipazioni diffuse dal Financial Times, sembra che l’asticella sarà messa a 75 miliardi di euro di capitalizzazione e 45 mila utenti attivi: abbastanza da catturare tutti i pesci grossi americani, e tanto basta. In tal modo, si crea un incentivo alle piattaforme europee a non crescere troppo, in modo da continuare a godere della piena libertà. Il Dma intende promuovere la concorrenza, dunque, ma rischia di ingessare il mercato, riducendo ulteriormente la competitività europea nel mercato digitale.
 

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