Una manovra da Draghi

Luciano Capone

Non è una legge di Bilancio perfetta, ma la migliore possibile. Una maggioranza eterogenea e una finanziaria espansiva in Italia producono una politica fiscale consociativa e clientelare. Il premier è invece riuscito a trovare un equilibrio positivo per il paese scontentando un po' tutti partiti che lo sostengono

Chi si aspettava una manovra da “Supermario”, che cioè Draghi – dopo aver dato una sistemata al Pnrr e dato impulso al piano di vaccinazione – avrebbe con un sol colpo raddrizzato tutte le storture del paese, probabilmente è rimasto deluso. Chi invece aveva aspettative meno alte ma più realistiche, cioè confidava nelle capacità di uno statista e non nei poteri di un supereroe, può accogliere con soddisfazione l’impostazione della manovra. Perché la legge di Bilancio presentata dal governo non è perfetta, ma è la migliore possibile.

 

In una situazione ideale, sarebbe servito molto più coraggio sulle tasse. In una manovra di circa 30 miliardi solo il 40% (12 miliardi) è riservato alla riduzione della pressione fiscale, e di questo ammontare che copre anche il mancato aumento di alcune imposte (plastic tax e sugar tax) solo due terzi (8 miliardi) sono dedicati per una reale e visibile riduzione delle tasse. E’ il primo stadio della riforma fiscale, ma le risorse sono poche e, per giunta, da dividere tra riduzione dell’Irpef e superamento dell’Irap. Insomma, il probabile esito è che questo gruzzoletto verrà ripartito e spalmato senza che contribuenti e imprese se ne accorgano più di tanto. Per sostenere la ripresa economica, ora che c’è un forte clima di fiducia, si poteva fare qualcosa di più incisivo. Anche sul lato del finanziamento, la manovra è per 23 miliardi in deficit e 7 miliardi di coperture, che però sono in gran parte maggiori entrate e quindi senza un riordino della spesa che, se fatto in maniera più incisiva, avrebbe potuto rafforzare la magra dote destinata per la riforma fiscale.

 

Se però guardiamo al contesto economico e politico, bisogna ammettere che tutto cospirava per una legge di Bilancio nettamente peggiore di questa. La crescita economica al 6%, superiore di 1,5 punti rispetto alle previsioni del Def di aprile e che verosimilmente sarà ancora più elevata a consuntivo, ha consentito di fare una manovra espansiva, sicuramente più generosa di quanto ipotizzabile in primavera. E il governo si regge poi su una maggioranza ampissima, composta da forze politiche tra loro ostili e quindi naturalmente disposte a porre veti incrociati. In una situazione del genere, una maggioranza eterogenea e una politica fiscale espansiva, l’equilibrio che naturalmente tende a produrre il sistema politico italiano è di tipo consociativo e clientelare: la spartizione del “tesoretto” per accontentare ogni forza politica e le loro constituency o clientele. Per giunta, sullo sfondo, c’è l’elezione del presidente della Repubblica che produce sul presidente del Consiglio – indicato da molti come possibile candidato – l’incentivo ad accontentare le richieste di spesa delle forze politiche lo sostengono e che tra pochi mesi dovranno eleggere il Capo dello stato. Lo scenario perfetto per una finanziaria pessima.

 

E invece Draghi è riuscito al momento a trovare un equilibrio nel governo non sperperando le risorse per accontentare tutti, ma scontentando tutti per impiegare le risorse a favore della crescita. O, quantomeno secondo un criterio economico più sensato. Nessuno, forse a parte qualche commentatore, avrebbe contestato al presidente del Consiglio la decisione di estendere nel tempo e nella misura vari bonus e superbonus. Nessuna forza politica si sarebbe opposta a uno stanziamento più generoso sulle pensioni per addolcire lo “scalone” prodotto da Quota 100, che Draghi avrebbe potuto giustificare come eredità dei governi precedenti. Nessuno si sarebbe scandalizzato se il Reddito di cittadinanza fosse rimasto con tutte le sue storture.

 

E invece, dove ha potuto, o meglio dove è riuscito, Draghi è intervenuto per abolire, correggere o modificare una serie di misure a cui i partiti di maggioranza erano molto affezionati. Alcune sono addirittura delle “bandiere”, pertanto intoccabili per l’elevato valore simbolico che prescinde dal contenuto. E’ stata abbandonata Quota 100, criticata senza mezzi termini, e sostituita da una Quota 102 che concede poco a Matteo Salvini e che ha messo in agitazione i sindacati. E’ stato rimodulato il Superbonus, un incentivo fortemente voluto da tutti i partiti, ma completamente sproporzionato (dal 110% scenderà nel tempo al 65%). Ha tagliato il bonus facciate, fortemente difeso da Dario Franceschini, ministro della Cultura e pezzo grosso del Pd. E’ stato aggiustato in diversi punti il Reddito di cittadinanza, oggetto sacro per il M5s, in modo da incentivare il lavoro e l’occupazione. E’ stato definitivamente abolito il Cashback, un bonus che costa 3 miliardi a cui è molto legato Giuseppe Conte, leader del partito più grande in Parlamento.

 

Tutti i partiti hanno votato una manovra espansiva che in parte scontenta ognuno di loro. Con un esito migliore a qualsiasi altro possibile per il paese. Ma ciò che va riconosciuto a Draghi è la serietà con cui sta portando avanti il suo incarico: il non aver usato le risorse della legge di Bilancio per “comprare” l’elezione a presidente della Repubblica. E proprio questa serietà è ciò che lo rende adatto al Quirinale.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali