Il dado è tratto

La Nadef di Draghi sfida l'impostazione storica di Bruxelles

Carlo Altomonte

L’Italia annuncia tre anni di politica espansiva: è l’inizio del negoziato sulla revisione del Patto di stabilità. Una mossa e tre ipotesi

Con la pubblicazione della Nadef si è avviata la stagione del varo della legge di Bilancio. Il governo capitalizza il rimbalzo nel 2021, con la stima di crescita del pil reale rivista al rialzo di 1,5 punti. Questo migliora la proiezione del deficit tendenziale, rivisto al ribasso nel 2021 (dal -11,8 al -9,4 per cento), con l’effetto positivo che si ripercuote  sugli anni successivi. Dunque, a politiche invariate, l’Italia arriverebbe già nel 2023 (quando si reintrodurrà il Patto di  stabilità) al di sotto della mistica soglia del 3 per cento. Fin qui, ottime notizie. 

    
Spostandosi però dal quadro tendenziale al quadro programmatico, si notano differenze significative. Il sentiero del deficit programmato dal governo è superiore al tendenziale a partire dal 2022 (5,6 per cento rispetto al 4,4) e si mantiene di oltre un punto superiore  nel 2023 e nel 2024. Analoga sorte tocca al deficit strutturale programmato, cioè quello depurato dal ciclo che conta per le valutazioni della Commissione europea. In sintesi, la Nadef potrebbe sollevare qualche critica se letta con la lente delle raccomandazioni storiche di finanza pubblica che Bruxelles era solita fare nel mondo pre pandemico, in cui veniva richiesta una correzione del deficit strutturale per portarlo “close to balance or in surplus” (vicino a zero), in particolare per i paesi ad alto debito e bassa crescita.

   
Da questa considerazione si possono fare tre ipotesi.

 

La prima è che il governo ritenga che il Patto di crescita e stabilità (Pcs) verrà sospeso per un altro anno: il percorso di rientro del deficit può prendere tempi più lunghi. Possibile, ma non realistico, perché questo avverrebbe se la crescita europea non si materializzasse, mentre le previsioni del governo vanno in direzione opposta.  

 

La seconda ipotesi è che il governo abbia espresso un posizione politica, che rappresenta un punto di partenza del negoziato che la Commissione dovrà avviare nel momento in cui dovrà di nuovo applicare le regole di finanza pubblica europea. Ma non sembra questo l’atteggiamento che il governo italiano sta tenendo con le istituzioni comunitarie, con cui il dialogo è aperto e costante.

 

Una terza ipotesi, più intrigante, suggerisce che il governo abbia già un’ipotesi (tutta da confermare, evidentemente) di quale potrebbe essere il punto di atterraggio finale del dibattito sulla riforma del Pcs. Un nuovo insieme di regole (o una nuova interpretazione) che combina la tutela della crescita con la stabilità del debito pubblico, lasciando maggiore flessibilità sul fronte del deficit. In questo senso sembrano andare i commenti del governo alla Nadef, in cui si sottolinea come l’impatto sul pil del maggior deficit è valutabile in 0,5 punti percentuali di crescita aggiuntiva in confronto al tendenziale nel 2022, e a 0,2 punti nel 2023, mentre nel 2024 il deficit più basso ritornerebbe a non essere stimolativo dell’economia.  Tutto questo con effetti netti positivi sul debito pubblico, che resta sì di circa 3 punti percentuali più alto rispetto allo scenario tendenziale, ma che, rispetto alle previsioni di soli sei mesi fa, e nonostante il deficit  maggiore, scenderebbe  sotto il 150 per cento già nel 2022 (al lordo dei sostegni e a fronte di previsioni del 156 per cento nel Def), e in zona 145 per cento nel 2024.

 
Evidentemente questa possibile direzione delle nuove regole europee di finanza pubblica si interseca con l’attualità politica. Le elezioni tedesche hanno consegnato uno scenario ancora frammentato, in cui potrebbe entrare al governo una partito, la Fdp, che rivendica  il ministero delle Finanze e che nel programma prevede una sola revisione possibile del Patto di stabilità: un suo  irrigidimento. Né è possibile per ora contare sul supporto francese, dovendo Macron passare attraverso una difficile sfida elettorale il prossimo aprile che ne blocca la capacità di prendere impegni  ambiziosi sul fronte Ue. Per quanto riguarda l’Italia, tuttavia, si direbbe che il dado è tratto.