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La globalizzazione è l'altro vaccino che ci sta proteggendo

Claudio Cerasa

Unire le forze, aprire i mercati, investire sulla crescita senza alzare barriere e chiudere confini: solo così siamo riusciti ad affrontare la pandemia e i suoi effetti. Qualche lezione (utile anche per capire cosa è andato storto a Kabul) 

Che cosa c’entra la pandemia con l’Afghanistan? E cosa c’entra la globalizzazione con la scelta isolazionista fatta a Kabul? E cosa c’entra l’ideologia nazionalista con il ritorno dei talebani? Riavvolgiamo il nastro e proviamo a ragionare un istante. Pronti? Via. Dunque. C’è un vaccino di cui si parla molto, anche se a volte a sproposito, che è quello che ci permetterà di superare la pandemia dal punto di vista sanitario. Ma c’è un vaccino di cui invece si parla poco, anche se non meno salvifico, che è quello che ci sta permettendo di affrontare la pandemia dal punto di vista economico. Il primo vaccino è quello che conosciamo ed è quello che ogni giorno milioni di persone si fanno iniettare per provare a trasformare il Covid-19 in qualcosa di più simile a un ricordo del passato che a una nuova angoscia legata al futuro. Il secondo vaccino è quello che non vogliamo vedere ed è quello che però ogni giorno si presenta sotto i nostri occhi in un modo molto diverso rispetto a come era stato descritto in passato. Il secondo vaccino di cui parliamo oggi coincide con una parola che i populismi hanno provato a trasformare in un sinonimo di virus, la globalizzazione, e che invece, un anno e mezzo dopo l’inizio della pandemia, somiglia più a una cura che a un virus.

  

Certo, si dirà, senza l’aiuto dello stato, senza l’emissione di debito, senza l’interventismo dei governi molte delle economie colpite violentemente dalle conseguenze del Covid-19 avrebbero fatto fatica oggi a riemergere. Ma senza la globalizzazione – senza la consapevolezza cioè che per risolvere i grandi problemi che riguardano il mondo occorre unire le forze, aprire i mercati, scommettere sulle esportazioni e investire sulla crescita senza protezionismi, senza alzare barriere e chiudere i confini – oggi sarebbe molto difficile essere ottimisti sul futuro del mondo libero. E mai come oggi quelle che un tempo apparivano come tendenze contrastanti (stato/globalizzazione) si presentano con una nuova forma: lo sviluppo parallelo. Vale quando si parla di economia (sono le aree meno globalizzate del mondo oggi ad avere i maggiori problemi sanitari ed economici), vale quando si parla di vaccini (i vaccini che funzionano sono quelli che nascono nel mare della globalizzazione non quelli che nascono nella risacca del nazionalismo), vale quando si parla di scambio commerciale (gli alimenti non sono mai mancati sulle nostre tavole grazie a una formidabile catena di approvvigionamento globale: le catene di fornitura dovevano collassare e invece hanno retto alla grande), vale quando si parla di mascherine (dopo una fase isterica iniziale in cui volevamo fare tutto in autarchia, dalle mascherine al vaccino, abbiamo scoperto che grazie alla globalizzazione abbiamo praticamente finito la campagna vaccinale prima ancora che il vaccino italiano venisse autorizzato), vale quando si parla di capacità di resistenza nelle nostre case durante i lockdown (senza globalizzazione non avremmo avuto infinite scelte per il delivery nelle nostre case, per lo streaming sui nostri schermi, per gli acquisti nei nostri salotti). Il comportamento del commercio globale durante la pandemia, ha scritto pochi giorni fa Steven Cohen, ex direttore esecutivo dell’Earth Institute della Columbia University e oggi docente di Gestione pubblica e Politica ambientale nella stessa università, è una prova empirica della persistenza e della durabilità della globalizzazione e il dato trova conforto in un paper pubblicato a inizio mese dalla Oxford Economics che ha scritto di non  aver “trovato prove di deglobalizzazione delle economie europee a causa della pandemia”, aggiungendo che “dopo l’interruzione iniziale il commercio di beni intermedi è ripreso più rapidamente del commercio globale, anche se la produzione rimane geograficamente frammentata”.

 

“La tecnologia – sostiene Cohen – ha reso il pianeta più piccolo e ha aumentato la nostra capacità di interagire gli uni con gli altri in tutto il mondo. I professionisti nei settori della ricerca, dell’istruzione, delle arti, dell’intrattenimento, della produzione, dei servizi, della tecnologia e dello sport operano sempre più a livello globale. E per quanto la pandemia abbia avuto un impatto oggettivo in tutti questi campi è un fatto che un gran numero di persone siano riuscite a lavorare insieme, globalmente, nonostante le restrizioni imposte dalla pandemia”. Il Wall Street Journal, pochi giorni fa, prima di concentrare la sua attenzione sul disastro afghano, che con la globalizzazione c’entra ma per un’altra ragione, ha dedicato un altro articolo interessante al tema sostenendo che in fondo ciò che ha funzionato finora nella lotta contro la pandemia è stato lo stesso soggetto che in molti oggi vogliono prendere a calci: Big Pharma. Pfizer, Moderna, AstraZeneca e Johnson & Johnson, ha scritto il Wsj, sono riuscite dove i nazionalisti hanno fallito, e mentre gli stati sovrani incassavano flop su flop con i propri vaccini di stato, gli scienziati di tutto il mondo hanno potuto raggiungere risultati impensabili facendo tesoro dei capitali messi a disposizione dal mercato. Le parole che negli ultimi anni l’indignato collettivo ha provato spesso a trasformare in un virus – globalizzazione, concorrenza, mercati aperti, commercio globale – oggi più che sinonimo di veleno sono diventate sinonimo di cura.

 

Ed è possibile che la fine del processo alla globalizzazione possa avere un effetto simile a quello immaginato recentemente dal professor Sabino Cassese: “Le chiusure nazionali di questi mesi hanno costretto a ridisegnare le filiere produttive, le catene globali del valore: ciò  non comporta minore globalizzazione, ma un diverso modo di globalizzare l’economia: forse saremo più vicini, anche se da lontano”. Il mondo che i protezionisti descrivevano come un sogno è diventato un incubo e ciò che veniva descritto come un incubo è diventato un sogno  (e un incubo, se ci si riflette un istante, è anche lasciare l’Afghanistan ai talebani, un atto di natura isolazionista che non tiene conto del fatto che, come diceva il vecchio saggio, il battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo: vale per una pandemia e vale anche per il terrorismo). La globalizzazione, Afghanistan a parte, sta dunque vincendo, ci sta vaccinando e ci sta persino proteggendo. Durante la pandemia, gli elettori se ne sono accorti. Chissà quando se ne accorgerà anche la politica.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.