Non si può semplificare complicando le leggi: i paletti di Cna

Sergio Silvestrini*

Nella stratificazione normativa italiana convivono allegramente leggi vincolanti, incerte e discontinue. Promemoria al legislatore: semplificare significa delegificare

Non sorprende l’acceso dibattito sul decreto semplificazioni, con un innalzamento della tensione tra la maggioranza e le forze sociali. Il provvedimento segna l’inizio della difficile scalata per ridisegnare buona parte dell’architettura istituzionale, funzionale alla modernizzazione del paese e al rispetto degli obiettivi ambiziosi e degli impegni assunti con la presentazione del Pnrr. Le semplificazioni sono il primo gran premio della montagna del corposo tour delle riforme. Un tassello fondamentale che dovrà essere coerente con il trittico degli interventi sulla Pa, la giustizia civile e il fisco. E’ la condizione preliminare per superare criticità endemiche e dare impulso alla ripartenza degli investimenti che rappresentano un fattore cruciale per la ripresa economica. Velocizzare la capacità di spesa è quindi indispensabile ma per la rigenerazione del paese la prima discriminante è spendere bene.

 

In attesa di conoscere il provvedimento nella sua formulazione definitiva, è utile una riflessione sul perimetro e la filosofia che lo determinano. La prima considerazione, purtroppo, è che il decreto appare una versione aggiustata e corretta del decreto legge varato l’anno scorso (“Misure per la semplificazione e l’innovazione digitale”), il cui principale limite era la mescolanza disordinata di misure strutturali di semplificazione con quelle dettate dal carattere di emergenza. Il primo mattone del provvedimento tanto atteso deve essere una visione chiara, semplice e completa, resistendo alla tentazione di regolare troppe materie con la consapevolezza che modificare e semplificare una procedura presuppone di intervenire anche sull’organizzazione amministrativa. La necessità di rispettare le scadenze vincolanti del Next Generation non deve condizionare l’esigenza di realizzare un contesto di norme e procedure ordinario e ordinato finalizzato a creare un ambiente che favorisca l’offerta di beni e servizi di qualità rendendo il settore degli appalti pienamente accessibile a tutte le categorie di imprese, senza discriminazioni per classe dimensionale.

 

Tra i luoghi comuni da sfatare quello che le maxi gare rendano più efficiente l’allocazione delle risorse. L’ultimo decennio evidenzia che l’equazione è sballata. L’aumento medio del 70 per cento del valore dei lotti ha prodotto l’esclusione di micro e piccole imprese dal mercato, la lievitazione del contenzioso e l’allungamento dei tempi di realizzazione. Continua la lettura miope di voler ridurre i tempi della fase di assegnazione, ignorando che l’espletamento delle gare non rappresenta il punto critico della realizzazione di un’opera (0,6 anni su una media di 4,4 anni) mentre si dovrebbe incidere con efficacia sulla fase di progettazione che pesa oltre il 50 per cento della durata complessiva.

 

Intervenire con la liberalizzazione del subappalto e il massimo ribasso non favorisce velocità e qualità delle opere. Anzi è un riflesso distorto della realtà e rischia di essere una terapia sbagliata. E’ evidente che la logica dell’appalto integrato e l’esaltazione della figura del general contractor sia logora e non abbia prodotto risultati positivi. Liberalizzare il subappalto significa eliminare ogni riferimento alla effettiva capacità tecnica e organizzativa dell’impresa mentre il massimo ribasso non favorisce la qualità dei lavori.

 

Da tempo sollecitiamo un nuovo approccio, individuando come priorità la qualità della progettazione esecutiva e il potenziamento delle competenze delle stazioni appaltanti. Istanza che potrebbe finalmente trovare soluzione con le disposizioni contenute nel Pnrr di rafforzamento delle strutture amministrative e delle competenze tecniche delle stazioni appaltanti. La decennale stratificazione normativa ha prodotto un assetto barocco incompatibile con la modernità e ha alimentato una dicotomia di tipo culturale, come se i valori della velocità e della semplicità siano incompatibili con quelli dell’efficienza, della legalità e del corretto funzionamento del mercato. La creatività italica sembra non conoscere limiti nel campo del diritto amministrativo facendo convivere allegramente normative vincolanti (codice appalti), incerte (sblocca cantieri) e discontinue (semplificazioni) con il comun denominatore che quasi sempre sono incomplete. Per allontanarsi dalla semplicità e dalla chiarezza, da qualche anno il legislatore predilige le norme a carattere settoriale o specifiche procedure piuttosto che le disposizioni di portata generale. Un tale coacervo non permette di delineare l’impronta dell’architettura normativa: orientamento verso la flessibilità dell’impianto oppure la regolazione puntuale.

 

L’altra grande anomalia è l’elevatissimo numero di autorizzazioni richieste e l’assenza di certezza sui tempi per acquisire i pareri. In tema di infrastrutture i ritardi accumulati dall’Italia non dipendono dalla disponibilità di risorse finanziarie, bensì dall’azione di freno esercitata da norme e burocrazia che rallentano quasi a paralizzare l’accumulazione di capitale pubblico. Tra le disposizioni disattese del codice appalti la principale è la mancata qualificazione delle stazioni appaltanti, ma restano criticità sulla corretta applicazione del principio della suddivisione in lotti e sulla definizione di best practice per la composizione degli elenchi di operatori che valorizzino le imprese locali.

 

Semplificare significa delegificare, non introdurre nuove norme che sembrano scritte da esperti di enigmistica piuttosto che da giuristi. Trasparenza, efficienza dell’azione amministrativa, qualità progettuale non sono antitetici, velocità, legalità e tutela del mercato non sono ossimori. Sarebbe un paradosso se il decreto semplificazioni mancasse di semplicità.


*segretario generale della Cna