(foto LaPresse)

Gianni Agnelli, un'istituzione capitalistica novecentesca

Luca Roberto

L'Avvocato come industriale atipico, figlio del suo secolo, nelle parole di Paolo Bricco e Marco Ferrante

Gianni Agnelli azionista della Fiat. Gianni Agnelli proprietario della Juventus. Gianni Agnelli Mr. Europe. E soprattutto Gianni Agnelli a capo di una famiglia che ha scritto una parte della storia del capitalismo italiano e internazionale. Come lo si può raccontare, nella sua veste di imprenditore e industriale, senza scadere nella retorica, nell'agiografia? "Per prima cosa bisogna provare a uscire dalla dimensione aneddotica, che lo aveva caratterizzato anche quando era in vita", premette Paolo Bricco, inviato del Sole 24 Ore che al racconto delle dinamiche del capitalismo autoctono ha dedicato un gran mole di articoli e saggi, che percorrono tutta la sua carriera di cronista. "Bisogna saper andare oltre il mito dell'Avvocato, del grande amatore, dell'uomo che con un una battuta risolveva ogni situazione. Era una condizione quasi mitopoietica, che si auto alimentava. A seconda dei punti di vista era stato reso o un'icona o un fumetto". Ma qual era, allora, la sua cifra autentica, in veste di imprenditore? "È stato un uomo del Novecento, perché ha rappresentato bene un codice novecentesco classico, quello delle personalità che riuscivano a contemplare insieme dimensioni di potere, di rappresentanza, di rappresentazione, di economia, di politica e di cultura. Una delle grandi caratteristiche della borghesia economica e intellettuale del secolo scorso è stata quella di costruire dei codici sincretici: per cui Gianni Agnelli, come anche Henry Ford prima di lui, erano uomini che facevano gli industriali, si occupavano di business, però sapevano anche che c'era una dimensione geo-politica connaturata alla loro attività. La vicinanza tra Torino e Detroit, Parigi e Stoccarda, era una forma di cultura transazionale che però aveva dei caratteri di forte radicamento nazionale".

   

"Ma non vi era una dimensione etica, morale", prosegue Bricco. "Ci sono molti punti di contatto con l'uomo rinascimentale, che era sia filosofo che uomo di lettere e di scienza, e anche la concezione novecentesca per cui le personalità della grande borghesia erano contemporaneamente uomini che si occupavano di città, di paesi, di nazioni, di rapporti. Quando Henry Kissinger viene fotografato allo stadio Comunale di Torino, quella foto in realtà è importante perché dietro c'è il punto di raccordo tra Gianni Agnelli, l'establishement americano e l'establishment italiano. C'è il ruolo di mediazione sia a favore del paese, nel secondo dopo guerra, quando siamo usciti dal fascismo senza nessuna titolarità vera per ascendere alle democrazie occidentali. Sia nei rapporti di mediazione con gli altri mondi". E che fosse un uomo del Novecento, lo prova pure l'aderenza alle due anime del secolo: "un'anima conflittuale e un'anima ricompositiva", aggiunge Bricco. "L'anima conflittuale sta dentro ai rivoluzionari o riformisti. L'anima ricompositiva invece credeva che la società dovesse essere riorganizzata per corpi intermedi attraverso la rappresentanza. Agnelli fa esattamente quello. Diventa presidente di Confindustria quando l'italia entra in una crisi gravissima, finanziaria e di conti pubblici, all'epoca della crisi energetica. Lui accetta di fare il presidente e firma il famoso punto unico di contingenza con la trimestralizzazione, che poi produrrà effetti inflattivi molto forti. Tanto che poi verrà cancellato dal decreto di San Valentino dal governo Craxi, anni dopo. Ma quell'errore è ancora più interessante da guardare oggi in retrospettiva, perché dimostra che c'era una visione molto precisa, un'aderenza a un'idea di meccanica delle cose. Anche in questa era un uomo del Novecento". 

  

  

Quella di un Agnelli figura in grado di trascendere dal ruolo di imprenditore, è una lettura condivisa anche da Marco Ferrante, scrittore e giornalista che con "Casa Agnelli", saggio pubblicato nel 2007, ha raccontato come pochi le fortune della famiglia torinese. "È stata una figura molto complessa. La grande popolarità, il potere e il fascino che esercitò sugli altri hanno condizionato i giudizi sul suo conto, anche quelli antipatizzanti. Sin dal ruolo, fu una persona non facilmente definibile. Un capo azienda, un grande erede, un azionista di riferimento la cui influenza sul suo gruppo variò nel corso degli anni, il capo di uno stato nello stato, ma anche un uomo dagli interessi personali multiformi", spiega al Foglio. "Nel rappresentare l'iconicità del grande imprenditore occidentale è stato imbattibile, un grande generatore di immagine. In Italia, in Europa, negli Stati Uniti. Un dirigente che attraverso il suo ruolo di uomo d’impresa ha incarnato molti dei valori su cui è stato costruito l'Occidente del dopoguerra: la dimensione atlantica, l’europeismo, e anche l'obbligo di conservare la radice italiana della sua azienda. Con la creatura ereditata da suo nonno ebbe un rapporto carnale e anche letterario, ne fu un po’ prigioniero e qualche volta un po' carceriere”.

  

(foto Ansa)

   

Aveva l'altra, inconfondibile caratteristica di essere un'azionista che amava delegare. Si circondava di personalità forti che avrebbero dovuto interpretare il suo volere, volgerlo nelle operazioni quotidiane. Era un uomo di fabbrica, ma atipico. "Gestire in prima persona non era nella sua natura", racconta Bricco. "A Torino ci sono due grandi tradizioni: gli ingegneri del Politecnico, il ramo delle scienze dure, una grande base identitaria del capitalismo italiano, e gli avvocati della scuola di Legge, Norberto Bobbio, Franco Antonicelli. Non a caso Gianni Agnelli dopo aver fatto gli studi non si iscrisse al Politecnico ma a Giurisprudenza. Questo è già significativo. Aveva un'attitudine per la fabbrica ma con un codice culturale preciso. Già nella scelta compiuta a 19 anni si dimostra più un'azionista che un gestore, ma un'azionista molto presente che ritiene indispensabile per la Fiat essere quello che è". 

 

Ezio Mauro ha scritto su Repubblica che per Gianni Agnelli la piemontesità è stata una "condizione condizionante". E Torino, molto più che una città era "una natura del luogo e delle persone, un modo di essere, addirittura un deposito di tradizioni".  Lettura che trova d'accordo Ferrante. “Rispetto alla figura dell’imprenditore tradizionale il suo ruolo si muove più sul lato istituzionale. Si trasforma in un’istituzione capitalistica, in cui erano mescolati molti elementi. L’educazione militaresca – e il culto dell’organizzazione militaresca – la torinesità, compreso il rapporto con l’azionismo piemontese; il rispetto per il ruolo della politica, pur nella dialettica; il profondo filoamericanismo, dovuto non solo alla sua nonna americana; l’italianità, anche nello stile; un incessante lavorìo sul senso estetico legato anche al ruolo. L’insieme di questi elementi vengono convogliati consapevolmente nella costruzione di una dimensione istituzionale internazionale, l’incarnazione del capitalista novecentesco, il ritratto che ne farà Andy Wharol”.

   

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