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I primi anti keynesiani

Gennaro Sangiuliano*

I testi di Milton Friedman, gli allievi della scuola di Chicago, le lezioni di Ronald Reagan e i confini di uno stato imprenditore. La nuova stagione di Draghi spiegata con un libro e un po’ di storia americana

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Nella nuova stagione targata Mario Draghi c'è una domanda che, vista la formazione economica del nuovo presidente del Consiglio e vista la formazione economica della sua squadra di governo, è tornata d'attualità e quella domanda coincide con una domanda che grosso modo suona così: cosa vuol dire dire di no alle politiche neo keynesiane? Una rilettura di Ronald Reagan può essere utile così come può essere utile andare a ripescare un vecchio saggio pubblicato per la prima volta nel 1962. Il saggio si chiamava “Capitalismo e libertà” e in questo saggio Milton Friedman – premio Nobel per l'Economia nel 1976, allievo di Friedrich von Hayek alla Chicago University, ateneo dove Friedman stesso insegna per lunghi anni e dove diventa l’animatore di un gruppo di ricerca di economisti che prenderà il nome di “Scuola di Chicago”, punto di riferimento del pensiero economico neoclassico, capace di essere fucina di ben tredici Nobel, più di qualsiasi altra università al mondo – illustra i cardini della sua proposta economica: deregulation, cioè eliminazione delle sovrastrutture normative che limitano l’azione economica individuale; privatizzazioni: partendo dal presupposto che i privati sono più efficienti del pubblico (ispirato, in questo, dall’opera di Ludwig von Mises “I fallimenti dello stato interventista”), teorizza le gestione privata di molti servizi ma non tutti; riduzione della spesa sociale. Sullo sfondo della sua visione, si avverte chiaramente la necessità di ridisegnare il ruolo dello stato nell’economia. 

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Nella nuova stagione targata Mario Draghi c'è una domanda che, vista la formazione economica del nuovo presidente del Consiglio e vista la formazione economica della sua squadra di governo, è tornata d'attualità e quella domanda coincide con una domanda che grosso modo suona così: cosa vuol dire dire di no alle politiche neo keynesiane? Una rilettura di Ronald Reagan può essere utile così come può essere utile andare a ripescare un vecchio saggio pubblicato per la prima volta nel 1962. Il saggio si chiamava “Capitalismo e libertà” e in questo saggio Milton Friedman – premio Nobel per l'Economia nel 1976, allievo di Friedrich von Hayek alla Chicago University, ateneo dove Friedman stesso insegna per lunghi anni e dove diventa l’animatore di un gruppo di ricerca di economisti che prenderà il nome di “Scuola di Chicago”, punto di riferimento del pensiero economico neoclassico, capace di essere fucina di ben tredici Nobel, più di qualsiasi altra università al mondo – illustra i cardini della sua proposta economica: deregulation, cioè eliminazione delle sovrastrutture normative che limitano l’azione economica individuale; privatizzazioni: partendo dal presupposto che i privati sono più efficienti del pubblico (ispirato, in questo, dall’opera di Ludwig von Mises “I fallimenti dello stato interventista”), teorizza le gestione privata di molti servizi ma non tutti; riduzione della spesa sociale. Sullo sfondo della sua visione, si avverte chiaramente la necessità di ridisegnare il ruolo dello stato nell’economia. 

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“Una società che ponga l’uguaglianza al di sopra della libertà, finirà per non avere né uguaglianza né  libertà”


Bisogna infatti ricordare che all’indomani della Grande Depressione del 1929, e per un lungo periodo durato fino a tutti agli anni Settanta, era dilagata l’impostazione keynesiana, basata sull’interventismo pubblico. Ora i neoliberisti mettono in dubbio questo dogma, tirando in ballo per l’appunto il “fallimento dello stato” che i teorici del laissez-faire contrappongono con vigore e spirito polemico al “fallimento del mercato” di Keynes. I contributi di Friedman abbracciano un’ampia prospettiva, a cominciare dai suoi imponenti studi, condotti in tandem con Jacob Schwartz, sulla storia monetaria, nei quali l’economista americano giunge a riformulare la teoria quantitativa. Anche per questo viene considerato il padre del “monetarismo”, termine coniato da Karl Brunner nel 1968 per indicare la teoria che auspica il controllo dell’offerta della moneta allo scopo di limitare l’inflazione e garantire una stabilità complessiva che agevoli lo sviluppo. 

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Nell’anno in cui Reagan conquista la Casa Bianca, il 1980, il saggio pubblicato da Milton Friedman insieme alla moglie Rose, “Free to choose” (Liberi di scegliere), diventa in breve tempo un bestseller tradotto in quattordici lingue. “Siamo ancora un popolo libero di scegliere” annotano i due autori nelle prime pagine “tra la possibilità di continuare a correre giù per la china – che nel titolo del suo profondo e autorevole libro Friedrich Hayek ha chiamato “strada della schiavitù” – e la possibilità di porre vincoli più stretti allo stato, facendo maggiore assegnamento sulla cooperazione volontaria tra individui liberi per conseguire i nostri molteplici obiettivi”. E poi aggiungono una domanda: “La nostra età dell’oro finirà con una ricaduta nella tirannia e nella miseria, che sono sempre state e continuano a essere la condizione di vita di gran parte dell’umanità? Oppure avremo la saggezza, la preveggenza e il coraggio di cambiare strada, di imparare dall’esperienza e di assicurarci i vantaggi di una ‘rinascita di libertà’”.

 

Si tratta di concetti che sono musica per le orecchie di Reagan, mentre lo sono meno per quello dei così detti neo keynesiani, come quello che Friedman espone a proposito della tassazione elevata, che finisce per incidere in maniera diretta sulla vita delle persone: “Un americano, una volta, propose una nuova festa nazionale, il ‘Giorno dell’Indipendenza Personale’, cioè il giorno dell’anno in cui smettiamo di lavorare per pagare le spese dello stato… e cominciamo a lavorare per pagare le cose che scegliamo individualmente, e ognuno per conto proprio, alla luce delle nostre esigenze e dei nostri desideri”. A Reagan piace anche un altro concetto enunciato in questo saggio. Friedman nota, per esempio, come la tendenza a tassare i redditi più ricchi sia un’enunciazione ideologica astratta perché in realtà sono proprio le persone con maggiore capacità economica che riescono a organizzare meglio l’elusione, essendo la legge “costellata di tante scappatoie, di tanti privilegi specifici, che le aliquote più alte sono mera apparenza”.

 

La proposta alternativa formulata è molto chiara: “Un’aliquota fissa moderata – meno del 20 per cento – su tutti i redditi superiori alle esenzioni personali e senza deduzioni, salvo che per le pure spese di produzione del reddito, frutterebbe un gettito maggiore dell’attuale struttura differenziata. I contribuenti ne avrebbero un vantaggio, perché potrebbero evitare quel che costa loro mettere i loro redditi al riparo dalle imposte; l’economia ne avrebbe un vantaggio, perché le considerazioni fiscali giocherebbero un ruolo minore nell’allocazione delle risorse. Gli unici a rimetterci sarebbero gli avvocati, i commercialisti, gli impiegati pubblici e i legislatori, i quali dovrebbero rivolgersi a qualche altra attività più produttiva della compilazione dei moduli delle imposte, dell’escogitazione di scappatoie fiscali o della ricerca dei modi per eludere”.

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Le raccomandazioni di politica fiscale fatte da Friedman sono il riflesso di più ampie concezioni che investono da vicino alcuni capisaldi della strategia di governo di Ronald Reagan. “Una società che ponga l’uguaglianza – nel senso di uguaglianza di risultato – al di sopra della libertà, finirà per non avere né l’uguaglianza né la libertà. L’uso della forza per ottenere l’uguaglianza distrugge la libertà, e la forza, introdotta per fini buoni, finisce nelle mani di persone che la usano per fare i loro interessi”. Questo non significa, come è stato ingiustamente affermato, smantellare la funzione dello stato, che “oltre alle attività della Difesa” deve garantire un “sistema giuridico forte che tuteli l’ordine pubblico e la proprietà privata; l’autorità di stampare e gestire la moneta”. 

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C’è un punto, all’apparenza di metodo, ma in realtà di sostanza, che occorre mettere in rilievo. Nell’azione di governo e ancora di più nella propria giornata di lavoro, non bisogna lasciarsi assalire dagli imprevisti e dalle variabili, bisogna perseguire il programma tracciato, senza cedere ai dubbi. Reagan, nella sua condotta di presidente e capo dell’esecutivo, si rivelerà fedele a questa linea: inflessibile, tenderà con ogni sforzo a fare le cose che si è prefisso, senza lasciarsi assalire dai dubbi dei suoi collaboratori, dagli appelli alla cautela e alla mediazione estrema. Nel gennaio 1981, all’inizio della sua avventura alla Casa Bianca, Reagan chiede alla Heritage Foundation, il più dotato e importante think tank conservatore, con sede a Washington, specializzato in politiche pubbliche, di redigere, sotto la sua personale supervisione, un’agenda di governo per il primo periodo. Il lavoro viene coordinato da Jack Eckerd, che era stato capo della General Services Administration sotto Gerald Ford, e da Robert Krieble, un manager chimico che vantava successi in campo imprenditoriale. La Heritage crea squadre di esperti che analizzano e vivisezionano le varie agenzie federali, prospettando per ciascuna una serie di interventi da porre in essere subito. Reagan fa riassumere il senso di questo attento lavoro di ricerca in un libretto intitolato “Mandate for Leadership”, ne accatasta centinaia di copie su un tavolo nello studio ovale e le consegna di persona ai collaboratori e ai membri del gabinetto, intimando loro di leggerlo con attenzione.

 

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Il Washington Post, che pure osteggia apertamente Reagan, dovrà ammettere che “Mandate for Leadership” diventerà molto più di un noioso schema di governo: un autentico bestseller, in grado di esercitare una certa influenza in vari settori del potere burocratico e amministrativo americano. Già il 28 gennaio, appena una settimana dopo l’insediamento alla Casa Bianca, Reagan ordina la completa deregulation dei prezzi del petrolio, che erano rimasti sotto il controllo delle autorità federali per circa un decennio. Ma il vero colpo a quello che lui ritiene essere un sistema politico-amministrativo di stampo socialista viene sferrato il giorno dopo, quando, con un tratto di penna, cancella del tutto il famigerato Consiglio per la stabilità dei salari e dei prezzi (Council on Wage and Price Stability). Smantella, così, in poche ore, un sistema federale di controllo dei prezzi che, come aveva più volte ripetuto in campagna elettorale, aveva alterato il meccanismo di offerta e domanda e portato a penurie di prodotti inaccettabili per gli Usa. 

  

“Lo stato? Sia innanzitutto un sistema giuridico  che tuteli l’ordine pubblico e la proprietà privata”

  

La grande riforma fiscale, a lungo agognata, prende invece il nome di Economic Recovery Tax Act, i giornalisti la definiscono anche Kemp-Roth Tax Cut, dai cognomi dei due parlamentari repubblicani, il deputato Jack Kemp e il senatore William Roth, relatori della proposta di legge al Congresso. Viene sancita una riduzione generalizzata delle aliquote dell’imposta sul reddito a livello federale, e varato un sistema di indicizzazione – cioè un meccanismo di adeguamento automatico – legato all’inflazione. La cosa importante da sottolineare è che dal provvedimento di riduzione sono interessate sia le aliquote alte (dal 70 al 50 per cento) sia quelle basse (dal 14 all’11 per cento). Inoltre, le tasse sui redditi da capitale scendono di un terzo e anche le tasse di successione vengono ridotte. Un forte taglio della tassazione va a vantaggio soprattutto delle imprese, che nei mesi successivi sarebbero tornate a fare investimenti. Non solo, si sarebbe registrato un forte incremento della nascita di nuove imprese per effetto del più vantaggioso regime fiscale.

  
 Nel corso della campagna presidenziale, oltre al taglio delle tasse, Ronnie aveva indicato un altro obiettivo fondamentale, quello di ridurre la spesa pubblica, arrivata a livelli incontrollabili. Obiettivo miseramente fallito. Durante la sua presidenza, il debito federale si sarebbe triplicato, passando in termini nominali da 738 miliardi a 2,1 trilioni di dollari, portando gli Stati Uniti dalla condizione di più grande creditore del mondo a quella di più grande debitore. Il disavanzo federale passerà dal 2,5 per cento del pil nell’anno fiscale 1981 a un exploit del 5,7 per cento del pil nel 1983, per poi scendere al 2,7 per cento nel 1989. Molti anni dopo Reagan riconoscerà che il fallimento sul ridimensionamento del debito è stato la “più grande delusione”. Ma nei primi mesi alla Casa Bianca, ai giornalisti che gli paventano il pericolo dell’esplosione del debito, risponde con un sorriso e una battuta: “Il debito pubblico è abbastanza grande da badare a sé stesso”. 

  
Sul bilancio federale – come detto – si consuma uno degli scontri più aspri e duri della prima fase dell’amministrazione Reagan. Il presidente attinge al bagaglio delle idee conservatrici che avevano da tempo messo nel mirino “lo spreco, la frode e l’abuso” di una vasta gamma di programmi sociali. Molta gente preferisce vivere di sussidi piuttosto che lavorare, o lavorare in nero in modo da introitare l’assegno sociale e una paga nascosta. L’architetto dei tagli al bilancio è un giovane deputato trentaquattrenne del Michigan, David Alan Stockman, che Reagan nomina alla guida dell’Office of Management and Budget.

 

Stockman si era fatto la fama di duro alla Camera dei Rappresentanti, dove spulciava i bilanci dell’amministrazione Carter per trovare sprechi. Figlio di agricoltori di origine tedesca, era cresciuto nel ventre del Partito repubblicano, nel quale già il nonno era stato tesoriere della contea. Aveva iniziato studiando teologia e filosofa morale, poi ad Harvard aveva incontrato Daniel Patrick Moynihan, influente teorico neoconservatore, che lo aveva segnalato al deputato John Anderson per uno stage a Washington. Stockman attira l’attenzione di Reagan e di tutto il fronte conservatore quando, nella primavera del 1975, in un articolo su The Public Interest usa l’espressione “porcile sociale” per indicare i mille sperperi ed eccessi del welfare messo in piedi dal Partito democratico. In realtà, né Stockman né tantomeno Reagan, memore della sua passata esperienza di sostenitore di Roosevelt e del New Deal, negavano la necessità di una forma di intervento pubblico a sostegno delle fasce deboli. E nessuno dei due intendeva abolire i sussidi alla disoccupazione e la previdenza sociale. Se ne chiede, in realtà, una razionalizzazione. Solo su un punto Ronald Reagan chiarisce che non bisogna tagliare ma semmai incrementare. Lo spiega a chiare lettere in un discorso al Chicago Council of Foreign Relations, il 17 marzo 1980, quando illustra le linee strategiche della sua politica estera: “In materia di Difesa bisogna spendere qualunque somma si riveli necessaria a dissuadere il nemico”.

 

*Gennaro Sangiuliano è direttore del Tg2 ed è autore del saggio “Reagan. Il presidente che cambiò la politica americana” (Mondadori), i cui estratti sono pubblicati in questa pagina.

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