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I danni economici del populismo (di destra e di sinistra)

Guglielmo Barone*

Draghi è una sterzata rispetto a una legislatura che aveva messo l’Italia su un sentiero pericoloso

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L’Italia si trova in un passaggio critico della sua storia, stretta su più fronti da diverse facce della crisi: sanitaria, economica, sociale. Questa fase emergenziale è solo l’ultimo atto che si innesta, aggravandolo, su un trentennio di crescita economica asfittica. Da qui le legittime paure sul presente e sul futuro, alle quali le forze politiche populiste hanno senz’altro dato voce. Ma un conto è dar voce, altro è proporre soluzioni credibili. Quelle offerte dai governi a trazione populista dopo le elezioni del 2018, declinate nelle varie colorazioni giallo-rosso-verdi, sono state ampiamente inadeguate. Il governo Draghi nasce sulle macerie di questa inadeguatezza, in piena emergenza, con la dote materiale dell’ampio supporto europeo delle politiche monetaria e fiscale e con la dote immateriale dell’altissima credibilità personale del premier. Alcuni si chiedono, con il giusto carico di speranza, dove ci porterà questa  sterzata. Altri riattaccano con la litania manichea del governo vicino alle cosiddette élite e distante dal popolo. E’ bene che ognuno abbia le proprie preferenze ma è altrettanto bene che tutti abbiano presenti i dati e le buone analisi che sui quei dati si fondano.

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L’Italia si trova in un passaggio critico della sua storia, stretta su più fronti da diverse facce della crisi: sanitaria, economica, sociale. Questa fase emergenziale è solo l’ultimo atto che si innesta, aggravandolo, su un trentennio di crescita economica asfittica. Da qui le legittime paure sul presente e sul futuro, alle quali le forze politiche populiste hanno senz’altro dato voce. Ma un conto è dar voce, altro è proporre soluzioni credibili. Quelle offerte dai governi a trazione populista dopo le elezioni del 2018, declinate nelle varie colorazioni giallo-rosso-verdi, sono state ampiamente inadeguate. Il governo Draghi nasce sulle macerie di questa inadeguatezza, in piena emergenza, con la dote materiale dell’ampio supporto europeo delle politiche monetaria e fiscale e con la dote immateriale dell’altissima credibilità personale del premier. Alcuni si chiedono, con il giusto carico di speranza, dove ci porterà questa  sterzata. Altri riattaccano con la litania manichea del governo vicino alle cosiddette élite e distante dal popolo. E’ bene che ognuno abbia le proprie preferenze ma è altrettanto bene che tutti abbiano presenti i dati e le buone analisi che sui quei dati si fondano.

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Viene in mente, per esempio, l’impennata dello spread all’annuncio di Savona ministro del Conte I, con in tasca il piano per uscire dall’euro. Da confrontarsi con il calo di questi giorni. Ma oltre l’evidenza aneddotica, un recente lavoro di ricerca di tre economisti tedeschi, pubblicato come discussion paper e intitolato “Populist Leaders and the Economy”, offre degli  spunti  eloquenti. Gli autori rispondono a una domanda tanto semplice quanto rilevante: le leadership populiste fanno bene o male all’economia? Per rispondere, prendono in esame 60 paesi  che rappresentano oltre il 95 per cento del pil mondiale, e di questi seguono le leadership politiche e gli andamenti economici per oltre un secolo (dal 1900 al 2018). Un affresco di grande respiro. I quasi 1.500 leader politici coinvolti sono classificati in populisti (di sinistra o di destra) o meno sulla base di un’ampia letteratura politologica. Per gli anni più recenti, per esempio, in base a questa classificazione risultano populisti i nostri Berlusconi e Conte, in compagnia di Trump, Erdogan, i Kirchner, Tsipras, Chávez, Maduro, Morales, Netanyahu e altri. I risultati sono eloquenti.

 

Si stima che alla fine dei 15 anni successivi all’inizio della leadership populista, il pil del paese interessato sia inferiore di 10 punti percentuali rispetto a quello di paesi molto simili che però hanno avuto leadership non populiste; non emergono particolari differenze tra populismi di destra e di sinistra. Per mettere in prospettiva questo dato, è più o meno lo stesso costo, in termini di pil, che l’Italia ha pagato nel 2020 alla pandemia, sebbene spalmato su più anni. Questa forte contrazione del reddito nazionale associata al populismo è generalizzata: caratterizza in ugual misura sia le leadership che hanno governato fino agli anni ’80 sia quelle successive; sia l’America latina, sia  altri paesi.

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E i danni non si fermano qui. Lo studio mette in luce anche come il populismo deteriori il contesto istituzionale, portando a un indebolimento della separazione tra potere giudiziario ed esecutivo e a un peggioramento della qualità del gioco democratico. Peggiorano cioè anche le condizioni che sono assolutamente necessarie per la crescita nel lungo periodo, come ha ricordato da ultimo il presidente Draghi nel suo discorso per la fiducia  al Senato. 

 
E c’è un’ultima domanda che merita attenzione: il populismo riduce perlomeno la disuguaglianza? Domanda legittima, dato il continuo rappresentarsi dei populisti come paladini dei cittadini contro le ingiustizie della modernità. La risposta è netta: no con il populismo di destra (allorquando si ha piuttosto un lieve incremento), sì (di poco) con quello di sinistra. In quest’ultimo caso l’indice di Gini, una misura di disuguaglianza molto diffusa, scende di 2 punti in 15 anni, un dato modesto se si tiene presente che la differenza dello stesso indicatore tra l’Italia e la Danimarca (paese tra i più egualitari) è oggi di 7 punti a sfavore dell’Italia. In altri termini: in 15 anni di populismo di sinistra l’Italia non ridurrebbe nemmeno di un terzo il gap di disuguaglianza che la separa dalla Danimarca. Evidentemente la strada dell’uguaglianza va cercata altrove. Teniamo ben presente l’insieme di queste evidenze, perché il populismo non finisce con l’arrivo di Draghi né con quello di Biden alla Casa Bianca.

    
*Guglielmo Barone, Università di Bologna

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