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Scannapieco, Franco e Rivera. I tre (possibili) moschettieri di Draghi

Stefano Cingolani

Al premier servono personalità competenti e di assoluta fiducia nei ruoli chiave. Come il vicepresidente della Bei, il dg della Banca d’Italia e il dg del Tesoro

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Il governo Draghi sarà tecnico, politico, tecnico-politico? Il trilemma che divide analisti e osservatori dimentica un particolare: sarà il governo del presidente, come l’ha delineato Sergio Mattarella. E’ questa la bussola per capire anche chi ne farà parte. E’ evidente che Mario Draghi voglia uomini di assoluta fiducia in alcuni dicasteri chiave, a cominciare dall’Economia. E qui spuntano tre Draghi boys di origine controllata: Dario Scannapieco, Daniele Franco e Alessandro Rivera.

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Il governo Draghi sarà tecnico, politico, tecnico-politico? Il trilemma che divide analisti e osservatori dimentica un particolare: sarà il governo del presidente, come l’ha delineato Sergio Mattarella. E’ questa la bussola per capire anche chi ne farà parte. E’ evidente che Mario Draghi voglia uomini di assoluta fiducia in alcuni dicasteri chiave, a cominciare dall’Economia. E qui spuntano tre Draghi boys di origine controllata: Dario Scannapieco, Daniele Franco e Alessandro Rivera.

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Il primo oggi è vicepresidente della Banca europea degli investimenti (Bei) che l’anno scorso ha erogato 11,9 miliardi di euro alle imprese italiane prime beneficiarie in assoluto con il 18 per cento del totale. Non perché Scannapieco sia italiano, sulla sua equidistanza come sulla sua competenza nessuno discute. Tuttavia la cifra fa capire il ruolo chiave dell’istituto dove è arrivato nel 2007 quando il Mef era guidato da Tommaso Padoa-Schioppa. In un colloquio con il Foglio, Scannapieco ha confessato di aver sempre voluto lavorare per lo stato. Romano, classe 1967, laurea alla Luiss, specializzazione alla Harvard Business School, mentre studia a Boston non smette di inviare lettere per chiedere di entrare al Tesoro. Scrive a Ciampi, a Prodi, a Draghi, allora direttore generale, che lo chiama prima del Natale 1996. Finito il master, nell’estate successiva entra a palazzo Sella come consulente e comincia a occuparsi di privatizzazioni; nel 2002, ministro Giulio Tremonti, diventa direttore generale per la finanza e le dismissioni. Cinque anni dopo ecco la Bei, dove si trova bene e che non vorrebbe lasciare. Ma se la patria chiama un civil servant non può sottrarsi. Nemmeno Daniele Franco potrebbe tirarsi indietro. L’attuale direttore generale della Banca d’Italia sarebbe la scelta più logica. Ha gestito con grande fermezza la Ragioneria generale dal governo Letta al governo Conte I. Era lui che doveva “bollinare” le spese dello stato e ha dovuto sopportare le impazienze di Matteo Renzi. Finché non ha incontrato “Il villano al suo villaggio” per citare Lope de Vega. Nel 2018 in un audio Rocco Casalino si è lasciato scappare un attacco ai “pezzi di merda del Mef” che ostacolavano lo spendi e spandi del governo. Anche Luigi Di Maio, sia pur con toni più urbani, gli sparò contro. Fu difeso da quel galantuomo di Giovanni Tria. Franco, bellunese nato nel 1953, una vita in via Nazionale dove è tornato come numero due, conosce a menadito il bilancio dello stato. Il governatore Ignazio Visco non vorrebbe fare a meno di lui ma per Draghi, che ha imparato a conoscerlo quando era governatore della Banca d’Italia, sarebbe un sostegno prezioso. Così come Alessandro Rivera, cinquantenne, nobile famiglia aquilana, promosso direttore generale dal ministro Tria, ma chiamato al Tesoro da Draghi nel 1991. A parte lo stretto legame personale, porterebbe la sua esperienza nella gestione delle crisi bancarie, più che preziosa, visto che una delle prime grane è Mps.

 

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