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Le due facce dell’agenda Draghi

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Falco o colomba? Qual è il pensiero economico dell'enigmatico premier incaricato? Lo rivelano i suoi scritti. Da neo-keynesiano pragmatico seguirà due linee di fondo: spesa “buona” per l’emergenza Covid e riforme strutturali per i problemi storici del paese

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Qual è il pensiero economico di Mario Draghi? La domanda non è banale e la risposta non è scontata. E’ stato l’uomo chiave delle privatizzazioni negli anni Novanta, ma anche quello che quest’anno ha suggerito spesa pubblica e debito per sostenere famiglie e imprese. Da presidente della Bce ha invocato il controllo dei conti (l’austerità) e le riforme strutturali, ma è stato anche l’uomo che ha introdotto politiche monetarie espansive ed eterodosse. Impostazioni diverse in circostanze differenti. Si può dire che l’approccio di Draghi, che gli è valso la definizione di “enigmatico” da parte del Financial Times, è quello dei versi dell’Ecclesiaste (o dei Byrds, per chi preferisce il rock): “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante...”.

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Qual è il pensiero economico di Mario Draghi? La domanda non è banale e la risposta non è scontata. E’ stato l’uomo chiave delle privatizzazioni negli anni Novanta, ma anche quello che quest’anno ha suggerito spesa pubblica e debito per sostenere famiglie e imprese. Da presidente della Bce ha invocato il controllo dei conti (l’austerità) e le riforme strutturali, ma è stato anche l’uomo che ha introdotto politiche monetarie espansive ed eterodosse. Impostazioni diverse in circostanze differenti. Si può dire che l’approccio di Draghi, che gli è valso la definizione di “enigmatico” da parte del Financial Times, è quello dei versi dell’Ecclesiaste (o dei Byrds, per chi preferisce il rock): “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante...”.

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Il presidente del Consiglio incaricato è da almeno trent’anni un protagonista della politica economica italiana ed europea. Finora ha interpretato le sue funzioni con spirito weberiano: quando prendeva la parola, non esprimeva opinioni personali, ma interveniva a nome dell’istituzione che di volta in volta rappresentava (il Tesoro, la Banca d’Italia, la Bce). Per la prima volta, Draghi si cimenta in un altro sport: da premier, dovrà articolare la sua visione delle cose, esporre la sua lettura delle cause di breve e lungo termine del declino italiano, definire una strategia di politica economica, coniugare i vincoli politici a cui è soggetto con i limiti e le opportunità di Next Generation Eu. Capire cosa pensa davvero è, dunque, essenziale per decifrare le sue prossime mosse. Fortunatamente, Draghi ha disseminato i suoi discorsi di indizi che lasciano intuire i suoi punti di riferimento e le sue convinzioni sulla condizione italiana. La tesi di dottorato, discussa nel 1970 al Mit sotto la guida di Franco Modigliani è dedicata a tre questioni che si sarebbero rilevate cruciali nella sua carriera: il rapporto tra la produttività e il pil, quello tra la politica monetaria e la bilancia dei pagamenti, e il trade-off tra gli obiettivi di breve termine della politica economica e la crescita di lungo periodo. Temi che, appunto, sono determinanti per governare l’Italia qui-e-ora.

 

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Quali sono gli investimenti prioritari da finanziare nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza? A quali riforme devono accompagnarsi? E, soprattutto, in base a quali criteri verranno stabiliti gli uni e gli altri? Volendogli affibbiare un’etichetta, Draghi è un neo-keynesiano pragmatico: crede nell’uso terapeutico della spesa pubblica in tempi di crisi, ma ritiene che le fasi di espansione vadano usate per mettere i conti in ordine. Sa che l’uso anticiclico della politica monetaria e fiscale serve a comprare tempo, ma che le determinanti dello sviluppo stanno altrove. Capisce l’importanza delle buone istituzioni e dell’equilibrio tra i poteri, ed è convinto che sono l’efficacia ed efficienza della giustizia a dare sostanza ai diritti di proprietà, allo scambio e, in ultima analisi, alla buona allocazione delle risorse. Proprio per questo, come la creazione di ricchezza e benessere sono il prodotto dell’efficace divisione del lavoro, la crescita di un paese dipende da quella particolare divisione dei compiti che separa le funzioni dello stato (regolare e redistribuire) da quelle del privato (competere e perseguire il profitto).

 

Tutti hanno citato e molti hanno letto gli interventi recenti di Draghi, sul Financial Times e al Meeting di Rimini, con l’ammissione che, in questo momento, gli stati devono spendere e indebitarsi e la distinzione tra debito “buono” e “cattivo”. Qualche informazione in più emerge da altri discorsi. Parlando alla Scuola Sant’Anna di Pisa per i vent’anni dell’euro, ha spiegato che “la bassa crescita italiana è un fenomeno che ha inizio molti, molti anni prima della nascita dell’euro. Si tratta chiaramente di un problema di offerta”. Per comprendere a cosa si riferiva, bisogna tornare un poco indietro nel tempo. I “problemi di offerta” rimandano al vasto capitolo delle riforme strutturali. Nel 2014, a Jackson Hole, Draghi spiegava che “non c’è grado di accomodamento di bilancio o monetario che possa compensare le riforme strutturali necessarie nell’area dell’euro”. E quindi, mettendo insieme i problemi congiunturali con quelli strutturali, la spesa pubblica è oggi essenziale, ma va intesa a complemento e non in sostituzione delle riforme. Quali? “Riforme dei mercati del lavoro, dei beni e servizi e interventi volti a migliorare il contesto imprenditoriale”. Le riforme devono aumentare la flessibilità per consentire “ai lavoratori di ricollocarsi rapidamente cogliendo nuove opportunità di lavoro” e accrescere “l’intensità di competenze delle forze di lavoro”. Temi ribaditi in un discorso alla Camera dei deputati nel 2015: “La politica monetaria sostiene il ciclo economico, aiuta l’economia ad avvicinarsi al potenziale produttivo. Ma non lo può accrescere, perché esso dipende dalla struttura dell’economia, dipende, appunto, dalle riforme strutturali”.

 

Ma per trovare un catalogo compiuto delle riforme di cui l’Italia ha bisogno, bisogna tornare ancora più indietro, rileggendo quello che forse è il più politico dei suoi documenti: le considerazioni finali del 2011, le ultime da governatore della Banca d'Italia, i cui contenuti riecheggiano la famosa lettera che qualche settimana dopo Draghi e Jean-Claude Trichet avrebbero inviato al governo italiano. Tali riforme includono la revisione della spesa e la riduzione delle tasse. Ma puntano al cuore del problema: “La nostra produttività ristagna perché il sistema non si è ancora bene adattato alle nuove tecnologie, alla globalizzazione”. Dunque occorre mettere mano al funzionamento del paese nei suoi gangli fondamentali: “Va affrontato alla radice il problema di efficienza della giustizia civile”; “Occorre proseguire nella riforma del nostro sistema di istruzione”; “La concorrenza, radicata in molta parte dell’industria, stenta a propagarsi al settore dei servizi, specialmente quelli di pubblica utilità”. Inoltre, proseguiva Draghi, è cruciale incrementare la dotazione infrastrutturale, ripensare il welfare in senso universalistico e promuovere l’occupazione femminile, troppo lontana dagli standard Ue.

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Per capire dove Draghi vorrà dirigersi bisogna rendersi conto che la crisi drammatica del Covid si è innestata su una crisi più profonda e antica. Dall’una si può uscire, almeno in parte, spendendo danaro pubblico; dall’altra si esce solo spendendo meno, spendendolo meglio e liberando le briglie dell’economia. La domanda da cui siamo partiti ora può essere riformulata così: quanta parte e quali parti dell’agenda Draghi il Parlamento intende portare avanti?

 

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