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Il banchiere e i suoi amici

Stefano Cingolani

I Draghi boys. L’America e l’Europa. L’importanza delle relazioni nella lunga marcia di Super Mario

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È già cominciato il toto ministri, il toto poltrone, il toto amici. Ma se per la formazione del governo sono ancora troppe le variabili (ancor più per chi si avventura in organigrammi alle alte sfere dello stato e del parastato) è possibile cercare qualche indizio nelle relazioni tessute da Mario Draghi durante la lunga marcia, che dura da quasi quarant’anni, dentro le istituzioni italiane e straniere. Le prime tracce sono nel collegio Massimo, il liceo romano dei gesuiti, che lo ha segnato in modo indelebile. Si pensi al rapporto con il suo professore, Franco Rozzi, una figura di riferimento per lui che aveva perso il padre da ragazzo. I giovanotti di buona famiglia che poi faranno carriere brillanti sono davvero molti, da Luca di Montezemolo a Giancarlo Magalli, Luigi Abete, Gianni De Gennaro, Staffan de Mistura, Aurelio De Laurentiis al quale Draghi ha telefonato, lui romanista da sempre, per sostenerlo nel comune antagonismo verso la Juventus. A raccontarlo è stato il presidente del Napoli, segno che il cemento dell’amicizia non s’è mai corroso.

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È già cominciato il toto ministri, il toto poltrone, il toto amici. Ma se per la formazione del governo sono ancora troppe le variabili (ancor più per chi si avventura in organigrammi alle alte sfere dello stato e del parastato) è possibile cercare qualche indizio nelle relazioni tessute da Mario Draghi durante la lunga marcia, che dura da quasi quarant’anni, dentro le istituzioni italiane e straniere. Le prime tracce sono nel collegio Massimo, il liceo romano dei gesuiti, che lo ha segnato in modo indelebile. Si pensi al rapporto con il suo professore, Franco Rozzi, una figura di riferimento per lui che aveva perso il padre da ragazzo. I giovanotti di buona famiglia che poi faranno carriere brillanti sono davvero molti, da Luca di Montezemolo a Giancarlo Magalli, Luigi Abete, Gianni De Gennaro, Staffan de Mistura, Aurelio De Laurentiis al quale Draghi ha telefonato, lui romanista da sempre, per sostenerlo nel comune antagonismo verso la Juventus. A raccontarlo è stato il presidente del Napoli, segno che il cemento dell’amicizia non s’è mai corroso.

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Lo stesso con Antonio Padellaro, classe 1946, di un anno più anziano: l’ex direttore del Fatto è tra i non molti giornalisti che hanno il privilegio di scambiare due chiacchiere con Draghi, gli altri sono Eugenio Scalfari, Giuliano Ferrara, Ferruccio de Bortoli al quale rilasciò l’unica intervista quando nel 2001 lasciò il posto di direttore generale del Tesoro, con l’arrivo di Giulio Tremonti. Allora consegnò il testimone a Domenico Siniscalco che lo ha ricordato sulla Repubblica: “Mi passò in dieci giorni le consegne tecniche, Più che altro mi lasciò una squadra di dirigenti fantastici”. E fa i nomi: Lorenzo Bini Smaghi, che oggi presiede Société Générale ed è stato membro del direttorio alla Banca centrale europea finché non è arrivato proprio Draghi; Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea degli investimenti (il suo nome è stato fatto come ministro dell’Economia o dello Sviluppo); Maria Cannata, che ha gestito a lungo l’immenso debito italiano; Roberto Ulissi, ora all’Eni come direttore affari societari e governance (anche di lui si parla per un posto al governo).

 

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Ma tra i Draghi boys un posto di rilievo lo occupa senza dubbio Fabio Panetta: lo accompagnava nei suoi viaggi quando era governatore della Banca d’Italia, è a lui che ha affidato compiti delicati e complesse mediazioni, di lui si fida tanto che, si dice nell’ambiente, “Panetta è Draghi”. Così, viene candidato dai giornali al ministero dell’Economia, anche se oggi occupa una posizione rilevante nel board della Bce. Se la partita italiana si gioca nella lega europea (non quella calcistica ovviamente) perché muovere due tasselli chiave come Scannapieco e Panetta? D’altra parte, è possibile che il capo del governo riserbi per sé l’interim sulle orme di Mario Monti.

 

Siniscalco e Draghi si erano conosciuti al Mit di Boston, poi si erano ritrovati come civil servant e insieme lavorarono nel 1992 alla manovra Amato da 90 mila miliardi nell’inutile tentativo di salvare la lira. Gli anni americani, dopo quelli del Massimo, sono stati fondamentali per stringere i rapporti personali, per esempio con Francesco Giavazzi che Draghi porterà nel consiglio degli esperti creato al Tesoro, vera fucina di analisi, idee, proposte, del quale faceva parte Vittorio Grilli che diventerà anch’egli direttore generale, per poi perdere la battaglia per la successione alla Banca d’Italia (una esperienza amara che ha scavato un solco tra i due). Grilli ora è alla Morgan Stanley, responsabile per l’Europa, consulente di Leonardo Del Vecchio.

 

Negli uffici che furono di Quintino Sella maturano le leggi che regolano la finanza italiana. Lì vengono messe alla prova le qualità non solo tecniche, ma gestionali ed emerge l’abilità manovriera del grand commis definito dall’ex ministro Piero Barucci “freddo e propositivo”. Caratteristiche apprezzate da Guido Carli, l’uomo che gli ha davvero aperto la strada principale. Paolo Cirino Pomicino racconta di quando lui, come ministro del Bilancio, discuteva sulle scelte più delicate, quelle degli uomini. Draghi aveva già le sue idee e i suoi candidati, ma stava a sentire e qualche volta (non spesso) cambiava cavallo. Non ha mai amato le riunioni (se può le evita) né si sente un “culo di pietra”, ma il presidente del Consiglio incaricato cerca il consenso finché è possibile, prima di decidere e, se il caso, battere i pugni sul tavolo. Lo si è visto all’opera anche a Francoforte, dove tesseva con pazienza le alleanze prima di alzare il muro contro la Bundesbank di Jens Weidmann. La stessa tattica seguita nel quinquennio in Banca d’Italia quando aprì le porte alle grandi fusioni del 2007 (Unicredit-Capitalia e Intesa Sanpaolo, ma anche a quella disgraziata tra Montepaschi e Antonveneta). Allora ha stretto un legame con Franco Frattini, ministro degli Esteri, ed è noto che Gianni Letta lo porta non da oggi in palmo di mano. Si è speso presso Silvio Berlusconi per nominarlo alla Banca d’Italia e poi sostenerlo per la Bce; e ancora adesso lo sostiene apertamente.

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La nomina nell’Accademia delle scienze sociali da parte di Papa Francesco, che Draghi ha più volte incontrato, è un ulteriore riconoscimento per così dire trasversale. Schivo, lontano dai salotti e dalle prime all’opera dove si va per farsi vedere e non per ascoltare, anche se è entrato nei palazzoni del potere quando nel lontano 1983 il ministro Giovanni Goria lo chiamò come consulente al Tesoro, Draghi viene considerato un alieno dal generone romano che gli fa la corte. E’ un suo modo d’essere, un atteggiamento vincente già apprezzato da Giulio Mazzarino nel Breviario dei politici a lui attribuito. Pur conoscendo perfettamente i meandri della capitale, del resto, la vera forza del futuro capo del governo sta fuori dai confini. A “Mario” si rivolgeva Barack Obama quando voleva salvare la Grecia e bisognava forzare i tedeschi. E Washington oggi è tornata nelle mani dei democratici e di quel coté politico-culturale al quale Draghi si è legato. La sua rete di conoscenze e rapporti internazionali costruiti in tutti questi anni è molto vasta e nasce proprio negli Stati Uniti. Stanley Fischer, l’economista diventato numero due alla Federal Reserve e poi governatore della Banca centrale israeliana, un vero guru nella teoria e nella pratica della moneta, è un amico e per molti versi un maestro. Larry Summers, segretario al Tesoro nel secondo mandato di Bill Clinton, ha tessuto pubblicamente le sue lodi a Davos nel 2015, è vero che si erano conosciuti a Boston, ma non è stato solo un gesto di cortesia. Il breve passaggio alla Goldman Sachs gli ha aperto il sancta sanctorum di Wall Street, la presidenza del Financial Stability Forum lo ha accreditato con la crème delle banche mondiali, il legame che ha saputo stringere con Angela Merkel ha fatto cadere le barriere del pregiudizio tedesco, in Francia i due governatori François Villeroy de Galhau e Christian Noyer lo hanno introdotto rispettivamente al mondo socialista e gollista. Poi è stato Emmanuel Macron a sostenere apertamente la svolta monetaria di Draghi. Washington, Berlino, Parigi, è questa la troika che potrà salvare l’Italia, se l’Italia si saprà salvare a dispetto dei nazional-populisti.

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