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Capitale & sinistra

Perché Bonomi vuole ancora Gualtieri al Mef

Stefano Cingolani

Sostegno e attenzioni: è il piano per la ripresa al centro del gioco di potere in corso. La forza tranquilla del ministro

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Chi ha memoria storica non ricorda nulla di simile dai tempi del sostegno a Guido Carli ministro del Tesoro, parliamo del triennio 1989-1992, al tramonto della Prima Repubblica. Un’uscita inusuale quella di Carlo Bonomi, ancor più perché tanto netta, con nome e cognome: il presidente della Confindustria, infatti, ha chiesto la conferma di Roberto Gualtieri. C’è chi evoca il “Patto dei produttori” e persino l’accordo Lama-Agnelli sulla scala mobile del 1975. Archeologia industriale? Non esattamente, perché in Italia la sinistra e il capitale hanno cercato più volte una reciproca legittimazione. Per esempio negli anni 90, quando gli eredi del Pci smontarono il capitalismo di stato sperando di creare “una nuova classe di padroni”. E Massimo D’Alema in nome del mercato aprì la porta ai “capitani coraggiosi” che scalarono Telecom Italia. Allora c’era Mario Draghi il quale, come direttore generale del Tesoro, dal 1991 al 2001 gestì le privatizzazioni meglio di Margaret Thatcher. Lo stesso Draghi che oggi molti invocano e pochi vorrebbero. Nemmeno Bonomi?

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Chi ha memoria storica non ricorda nulla di simile dai tempi del sostegno a Guido Carli ministro del Tesoro, parliamo del triennio 1989-1992, al tramonto della Prima Repubblica. Un’uscita inusuale quella di Carlo Bonomi, ancor più perché tanto netta, con nome e cognome: il presidente della Confindustria, infatti, ha chiesto la conferma di Roberto Gualtieri. C’è chi evoca il “Patto dei produttori” e persino l’accordo Lama-Agnelli sulla scala mobile del 1975. Archeologia industriale? Non esattamente, perché in Italia la sinistra e il capitale hanno cercato più volte una reciproca legittimazione. Per esempio negli anni 90, quando gli eredi del Pci smontarono il capitalismo di stato sperando di creare “una nuova classe di padroni”. E Massimo D’Alema in nome del mercato aprì la porta ai “capitani coraggiosi” che scalarono Telecom Italia. Allora c’era Mario Draghi il quale, come direttore generale del Tesoro, dal 1991 al 2001 gestì le privatizzazioni meglio di Margaret Thatcher. Lo stesso Draghi che oggi molti invocano e pochi vorrebbero. Nemmeno Bonomi?

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Sulla carta è vero il contrario: debito buono, basta con il sussidistan, insomma c’è grande sintonia sulle cose da fare. E certo Draghi starebbe a sentire con cortese attenzione. Chi l’ha visto all’opera quando si trattava di nominare i vertici delle aziende pubbliche o sistemare le banche, ricorda che ascoltava con il sorriso sulle labbra sottili e solo raramente cambiava le sue decisioni. Draghi è una figura autorevole, oggi ancor più di allora, che non si fa condizionare da lobby, gruppi di pressione, corporazioni. Gualtieri è una forza tranquilla che ha dato prova di equilibrio in Europa con il Mes e il Recovery fund o in Italia quando si è trattato di mediare con i sindacati sul blocco dei licenziamenti, una delle partite più difficili che stanno molto a cuore alla Confindustria.
 
     

Ma come mai oggi l’organizzazione più criticata a sinistra (e spesso detestata) viene cercata e lusingata persino tra i Cinque stelle? Basti ricordare all’ultima assemblea il discorso di Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo, sullo stato amico delle imprese. Per Giuseppe De Rita siamo di fronte a un ritorno sulla scena dei corpi intermedi. Il decennio della disintermediazione, dell’uomo solo al comando, del rapporto diretto tra capo e popolo, ha fatto terra bruciata.

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È il tempo della nuova mediazione che affida un ruolo decisivo a tutte le istituzioni in grado di gettare un ponte tra società politica e società civile. Una lettura alta che non lascia spazio a mercanteggiamenti di ben più prosaico profilo. Tuttavia gli interessi in campo ci sono, sono molti, più o meno legittimi, e hanno davanti un’occasione mai vista prima, con 222 miliardi di euro da distribuire e da impiegare. 

    

Il piano per la ripresa è il vero contenuto del gioco di potere in corso. Si tratta di un romanzo che durerà nel tempo e si divide grosso modo in tre tomi: la spesa corrente, gli investimenti e le riforme. Il primo riguarda in sostanza la trasformazione dei bonus una tantum in sostegni e incentivi alle imprese e al lavoro.

 

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È chiaro che la Confindustria vuole interlocutori dei quali fidarsi, non figure di scarsa esperienza, bizzose quanto bizzarre. Quel che è accaduto con Danilo Toninelli a proposito Autostrade e la pervicace voglia di punire i Benetton la dice lunga sullo spirito che anima buona parte dei grillini. Gualtieri ha dimostrato di saper trattare anche con loro, un vantaggio affinché sugli investimenti non torni a prevalere la retorica delle piccole contro le grandi opere o della decrescita felice. Il terzo tomo è ancora tutto da scrivere e qui la Confindustria dovrebbe farsi compartecipe, mostrando di non essere solo un sindacato che chiede e non dà.

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Prendiamo le tasse: sarebbe importante se Bonomi lanciasse un “patto fiscale”, impegnando i suoi associati a combattere l’evasione in cambio di una riduzione delle imposte. O se l’organizzazione diventasse una piattaforma per aiutare la riconversione delle aziende con l’obiettivo di farle uscire dal loro cronico nanismo. Guido Carli quando presiedeva la Confindustria propose uno Statuto dell’impresa parallelo a quello dei lavoratori, con tanto di diritti e doveri. I suoi associati non gradirono.
  

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