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Sud e infrastrutture, “il Recovery plan rischia di dividere l'Italia in due”

Maria Carla Sicilia

Dall'alta velocità di rete ai porti sotto valorizzati, nel piano italiano di ripresa e resilienza il Mezzogiorno ne esce azzoppato. L'analisi della Fondazione Per

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Nel Recovery plan della discordia, miccia della crisi di governo, il potenziamento delle infrastrutture è uno degli interventi su cui il governo ha dirottato più risorse, assegnando complessivamente 32 miliardi di euro per l'alta velocità di rete, la manutenzione stradale, l'intermodalità e la logistica integrata. Obiettivo delle misure è realizzare un sistema infrastrutturale di mobilità moderno, digitalizzato e sostenibile dal punto di vista ambientale e per farlo si è deciso di puntare soprattutto sull'ammodernamento della rete ferroviaria e sugli investimenti indirizzati al sistema portuale. Per entrambi gli aspetti, il piano richiama la centralità del Mezzogiorno: in tema di rete ferroviaria si fa riferimento ai fondi di sviluppo e coesione come leva aggiuntiva per gli investimenti, per i porti si sottolinea il ruolo centrale che possono ricoprire nei trasporti infra-mediterranei e per il turismo. Eppure, a leggere l'analisi pubblicata dalla Fondazione Per - Progresso Europa Riforme quello che il piano di ripresa e resilienza propone per le regioni meridionali non è solo insufficiente, ma anche dannoso. “Un governo che si definisce meridionalista sta per dividere ancor di più l’Italia in due”, dice al Foglio Leandra D'Antone, docente di Storia Contemporanea all’Università di Roma La Sapienza, che ha curato per la Fondazione un quaderno che raccoglie le proposte di un gruppo di esperti per sviluppare le migliori infrastrutture per il Sud Italia.

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Nel Recovery plan della discordia, miccia della crisi di governo, il potenziamento delle infrastrutture è uno degli interventi su cui il governo ha dirottato più risorse, assegnando complessivamente 32 miliardi di euro per l'alta velocità di rete, la manutenzione stradale, l'intermodalità e la logistica integrata. Obiettivo delle misure è realizzare un sistema infrastrutturale di mobilità moderno, digitalizzato e sostenibile dal punto di vista ambientale e per farlo si è deciso di puntare soprattutto sull'ammodernamento della rete ferroviaria e sugli investimenti indirizzati al sistema portuale. Per entrambi gli aspetti, il piano richiama la centralità del Mezzogiorno: in tema di rete ferroviaria si fa riferimento ai fondi di sviluppo e coesione come leva aggiuntiva per gli investimenti, per i porti si sottolinea il ruolo centrale che possono ricoprire nei trasporti infra-mediterranei e per il turismo. Eppure, a leggere l'analisi pubblicata dalla Fondazione Per - Progresso Europa Riforme quello che il piano di ripresa e resilienza propone per le regioni meridionali non è solo insufficiente, ma anche dannoso. “Un governo che si definisce meridionalista sta per dividere ancor di più l’Italia in due”, dice al Foglio Leandra D'Antone, docente di Storia Contemporanea all’Università di Roma La Sapienza, che ha curato per la Fondazione un quaderno che raccoglie le proposte di un gruppo di esperti per sviluppare le migliori infrastrutture per il Sud Italia.

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“Il Recovery Fund è una grande opportunità per dare nuovo impulso al Mezzogiorno. E invece c'è da indignarsi per la scelta delle opere trasportistiche e delle attrezzature logistiche che si vogliono realizzare al Sud”, dice D'Antone. Dagli aeroporti dimenticati, ai porti sotto valorizzati – perché ritenuti validi solo per i trasporti infra-mediterranei – alla scelta degli interventi per l'alta velocità, che è di rete e non alta capacità come quella attiva sulle direttrici del nord, i saggi pubblicati sul quaderno sottolineano il paradosso di voler investire sulla crescita economica del Sud con progetti che pongono già in partenza dei limiti allo sviluppo sociale ed economico del territorio.

 

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Un esempio si trova nel contributo al quaderno firmato da Francesco Russo, professore di Ingegneria dei Trasporti nell'Università di Reggio Calabria, che analizza costi e benefici dell'alta velocità di rete a 200 chilometri orari sulla linea Salerno – Reggio Calabria e li confronta con costi e benefici dell'alta velocità a 300 km/h. Partendo dai dati a disposizione, Russo stima un incremento di 7 punti percentuali di pil nelle città raggiunte dall’AV a 300 km/h, che se venisse estesa al Sud permetterebbe di arrivare da Roma allo Stretto in meno di 3 ore. Al contrario, adattare l'attuale linea Salerno Reggio portandola a una velocità massima di 200 km/h permetterebbe di ottenere un risparmio di 20 minuti: “Ne segue che nessuna leva allo sviluppo del Pil si potrà innescare, perché i tempi dei collegamenti sarebbero praticamente identici a quelli di oggi”.

 

Costruire il nuovo, invece di adattare il vecchio, lascerebbe aperta anche l'ipotesi del collegamento stabile con la Sicilia attraverso il ponte sullo Stretto, che per i relatori del quaderno è un'opera da realizzare, anche se fuori dal perimetro dei fondi del Next Generation Eu, che impongono tempistiche inconciliabili. Invece, frazionare la costruzione della tratta Salerno – Reggio renderebbe cantierabile l'opera coerentemente con i tempi indicati da Bruxelles. “Si potrebbe iniziare dalla tratta Lamezia – Gioia Tauro”, dice D'Antone, “così da valorizzare l'asse porto/aeroporto”. E proprio Gioia Tauro, come anche Augusta, è uno dei grandi assenti dal capitolo portuale del Recovery plan, che si focalizza invece su Genova e Trieste. Inseriti nel core network dei Ten-T, i corridoi europei per il traffico intercontinentale, i due porti meridionali nel piano italiano sono contemplati solo per il turismo e per i traffici interni al mediterraneo. “Il Next Generation Eu, per come è concepito, dovrebbe favorire il riequilibrio territoriale”, nota Pietro Spirito, presidente dell'Autorità di sistema portuale del Mar Tirreno centrale e docente di Economia dei trasporti. Invece “l’attuale bozza del documento italiano appare ricalcare approcci tradizionali, senza una idea di rilancio strutturale del Mezzogiorno”. Il dubbio che resta è che per destinare una quota di risorse al Sud si sia scelto di investire a tutti i costi, anche senza avere un piano organico che sappia misurare gli impatti e gli effetti di questi investimenti sul territorio e in relazione al resto del paese. Con il rischio, paradossale, di ampliare i divari invece che ricucirli.

 

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