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EDITORIALI

Non ci serve uno stato che faccia auto

Redazione

L’Italia può sostenere Stellantis senza diventare azionista. Tre idee

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Antonio Misiani, senatore del Pd e viceministro dell’economia, la presenza dello stato in Stellantis “non deve essere un tabù”. La dichiarazione lanciata dalle agenzie ha fatto saltare sulla sedia (pardon su Twitter) Carlo Calenda: “Fate bene quello che lo stato deve fare invece di giocare al piccolo imprenditore”, ha rimbeccato prontamente, mandando in sollucchero una volta tanto i liberali. La questione è complicata, perché lo stato francese è presente nel nuovo gruppo mondiale dell’auto, sia pure come residuo del suo intervento per salvare Peugeot: attraverso la banca pubblica Bpi possiede un pacchetto del 6 per cento con il quale vorrà incidere ogni qual volta vengano messi in discussione gli stabilimenti francesi e i loro dipendenti. Dunque, perché anche il governo italiano non fa altrettanto per tutelare gli interessi nazionali, tanto più che la Fiat Chrysler ha ricevuto 6,3 miliardi di euro per affrontare la pandemia? Sembra una obiezione di buon senso e senza dubbio è legittimo chiedere parità di condizioni.

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Antonio Misiani, senatore del Pd e viceministro dell’economia, la presenza dello stato in Stellantis “non deve essere un tabù”. La dichiarazione lanciata dalle agenzie ha fatto saltare sulla sedia (pardon su Twitter) Carlo Calenda: “Fate bene quello che lo stato deve fare invece di giocare al piccolo imprenditore”, ha rimbeccato prontamente, mandando in sollucchero una volta tanto i liberali. La questione è complicata, perché lo stato francese è presente nel nuovo gruppo mondiale dell’auto, sia pure come residuo del suo intervento per salvare Peugeot: attraverso la banca pubblica Bpi possiede un pacchetto del 6 per cento con il quale vorrà incidere ogni qual volta vengano messi in discussione gli stabilimenti francesi e i loro dipendenti. Dunque, perché anche il governo italiano non fa altrettanto per tutelare gli interessi nazionali, tanto più che la Fiat Chrysler ha ricevuto 6,3 miliardi di euro per affrontare la pandemia? Sembra una obiezione di buon senso e senza dubbio è legittimo chiedere parità di condizioni.

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Ma ci sono altre strade per difendere il lavoro italiano nel nuovo colosso dell’auto. La prima via è fare in modo che le fabbriche della FCA restino efficienti, che non venga gettata negli ingranaggi la sabbia del “voto di scambio” o di un giustizialismo anti-industriale. La seconda strada è controllare in modo accurato l’uso delle risorse pubbliche. La terza è aiutare la grande trasformazione che l’industria automobilistica deve attraversare (si pensi solo al sostegno che si può dare investendo nella ricerca). La filiera automobilistica pone l’Italia al secondo posto dietro la Germania, dunque è un comparto di importanza fondamentale. Lo è diventato senza che lo stato possegga azioni o tanto meno gestisca fabbriche automobilistiche dopo la disastrosa e sfortunata vicenda dell’Alfa Romeo. Se l’Italia volesse ingaggiare un braccio di ferro, dovrebbe chiedere che esca il governo di Parigi non che entri quello di Roma. Per tutto questo non serve un pacchettino di azioni né uno strapuntino in un consiglio di amministrazione nel quale sono presenti anche i sindacati. Serve essere un interlocutorie serio, autorevole, competente.

 

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