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La scatola vuota

Tanto fumo, poco recovery

Maria Carla Sicilia

Non basta una lista di obiettivi per cambiare il paese. Girotondo tra esperti per capire cosa funziona e cosa manca nel Piano nazionale di ripresa e resilienza

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Visione strategica, riforme, ricadute sociali ed economiche dei progetti in cantiere. Sono i grandi assenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), con cui l’Italia si gioca la sua occasione per ripartire e diventare un paese più forte e competitivo per i prossimi decenni. A sottolineare le lacune del piano sono gli esperti con cui abbiamo analizzato i diversi ambiti di intervento di cui si compone, chiedendo loro di valutare l’efficacia dei progetti e degli investimenti. Il quadro – tracciato in maniera trasversale dai nostri interlocutori – è piuttosto omogeneo e si può riassumere così: il Recovery italiano è ancora una scatola vuota, che si regge su macro obiettivi condivisibili di cui non si conoscono le modalità di attuazione né gli impatti sull’economia e sul territorio, ma di cui si scorgono già diversi limiti: non solo il rischio di restare intrappolati nei colli di bottiglia tipicamente italiani, ma anche la mancanza di coesione tra ambiti di intervento che andrebbero coordinati per ottenere risultati più efficaci e di lunga durata. E così, nonostante la bozza del piano e la tabella che dettaglia i 52 progetti, a meno di due mesi dalla data indicata ieri da Giuseppe Conte per la presentazione del documento a Bruxelles, restano più dubbi che certezze sulla capacità dell’Italia di mettere a frutto i 209 miliardi del Next Generation Ue. 

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Visione strategica, riforme, ricadute sociali ed economiche dei progetti in cantiere. Sono i grandi assenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), con cui l’Italia si gioca la sua occasione per ripartire e diventare un paese più forte e competitivo per i prossimi decenni. A sottolineare le lacune del piano sono gli esperti con cui abbiamo analizzato i diversi ambiti di intervento di cui si compone, chiedendo loro di valutare l’efficacia dei progetti e degli investimenti. Il quadro – tracciato in maniera trasversale dai nostri interlocutori – è piuttosto omogeneo e si può riassumere così: il Recovery italiano è ancora una scatola vuota, che si regge su macro obiettivi condivisibili di cui non si conoscono le modalità di attuazione né gli impatti sull’economia e sul territorio, ma di cui si scorgono già diversi limiti: non solo il rischio di restare intrappolati nei colli di bottiglia tipicamente italiani, ma anche la mancanza di coesione tra ambiti di intervento che andrebbero coordinati per ottenere risultati più efficaci e di lunga durata. E così, nonostante la bozza del piano e la tabella che dettaglia i 52 progetti, a meno di due mesi dalla data indicata ieri da Giuseppe Conte per la presentazione del documento a Bruxelles, restano più dubbi che certezze sulla capacità dell’Italia di mettere a frutto i 209 miliardi del Next Generation Ue. 

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Un primo punto emerge parlando con Stefano Firpo, direttore generale di  Mediocredito Italiano e già dg per la politica industriale al Mise, e Andrea Tavecchio, Senior Partner Tavecchio & Associati, consulente dei governi Monti e Renzi: nel documento, “che sembra un esercizio compilativo frutto di una sintesi di tutti i contributi delle varie amministrazioni”, “manca quasi del tutto il nesso tra riforme e investimenti”. “La commissione si aspetta che questi piani abbiano sì capitoli di spesa – spiega Firpo – ma anche che siano accompagnati da riforme, in particolari riforme strutturali. Se non si mette mano all'assetto regolatorio in alcuni ambiti, questa spesa in Italia non si farà mai”. In particolare, soffermandoci sul capitolo della digitalizzazione della pubblica amministrazione, l’impressione è di trovarsi davanti a “slogan efficaci”. Obiettivi condivisibili, dice Firpo, ma vecchi: “Sono gli stessi identici capitoli dell’agenda digitale di Mario Monti: fascicolo elettronico, identità digitale, anagrafe. Ci si aspetta qualcosa in più”. Anche perché, continua, il rischio è trasformare questi soldi in una spesa per assunzioni a pioggia. “Cosa che sarebbe anche giusta per la nostra amministrazione vecchia e sfibrata. Ma se le assunzioni non sono accompagnate da una riforma, che introduca criteri di valutazione e metodi innovativi di analisi, si finisce per inserire risorse e persone in una macchina molto disfunzionale”. “Stanno apparecchiando una mega legge di bilancio senza una visione strategica”, aggiunge Tavecchio. “La burocrazia romana che ha fatto la selezione dei progetti ha probabilmente dimenticato che una parte importante degli investimenti sarà in capo ai comuni e alle regioni. Sanità,  scuola,  mobilità locale: non si può non dare parte di competenza direttamente alle amministrazioni locali”. Sotto al cappello della digitalizzazione trova posto poi il cashback, che mobilita quasi 5 miliardi di euro. “E’ una forma di helicopter money – dice Tavecchio –   una modalità anacronistica per dare impulso alla trasparenza fiscale. Più utile sarebbe insistere sulla fatturazione elettronica e trasformare la dichiarazione dei redditi in un momento in cui comunicare la propria ricchezza patrimoniale e non solo quanto guadagnato”. 

 
Il digitale, tra usato sicuro e omissioni


Restando ancora sul capitolo digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, a cui il piano destina complessivamente 48,7 miliardi di euro, “l’impressione immediata è quella di un coacervo di misure e termini privi di una visione strategica che li tenga insieme”, dice Stefano da Empoli, presidente del think tank I-Com, Istituto per la Competitività. “C’è un mix di strumenti orizzontali, che includono l’usato sicuro della strategia Transizione 4.0 (già Industria 4.0 e poi Impresa 4.0) e verticali (come Editoria 5.0) che francamente non appare ben assortito”. Utilizzare “l’usato garantito”, come accade in molti altri capitoli del piano, permette di dirottare sulle risorse fresche del Recovery progetti già finanziati con risorse ordinarie del bilancio statale. Una sostituzione di debito con debito, che da una parte riduce la forza propulsiva del piano ma che dall’altra rassicura sulla cantierabilità dei progetti. Ne sono un esempio il credito d’imposta per i beni strumentali e per l’aggiornamento dei macchinari, nota Da Empoli, così come il patent box – il regime fiscale agevolato che si applica ai redditi derivanti da marchi e brevetti – inserito nel Pnrr con lo stesso impegno di spesa già previsto nella legge di Bilancio. 

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Su banda larga e 5G, “il documento fa un chiaro riferimento alla rete unica al fine di evitare duplicazioni degli investimenti, ma garantisce allo stesso tempo la concorrenza grazie a una separazione adeguata tra infrastruttura e servizi a valle”. “Benissimo – continua Da Empoli – anche se sulle telecomunicazioni la vera urgenza lato investimenti è legata agli ostacoli amministrativi più che ai profili finanziari. E la priorità assoluta è la domanda che stenta a decollare, basti guardare al gap tra copertura e abbonamenti in banda ultra larga, molto più elevato in Italia che nel resto d’Europa”. Grande assente del capitolo è poi quella che Da Empoli definisce “la tecnologia trasversale di maggiore impatto della nostra epoca”: l’intelligenza artificiale, citata solo un paio di volte più per caso che con intenzionalità. “Un’omissione che ha del singolare perché è finalmente in dirittura d’arrivo la Strategia nazionale che prevede 2,5 miliardi di euro di investimenti pubblici, risorse che ci proietterebbero nella stessa lega di Germania e Francia ma che difficilmente potranno essere interamente trovati nelle pieghe del bilancio ordinario”. Su questo fronte, il Recovery è “un’occasione apparentemente sprecata che potrebbe far storcere il naso a più di qualche interlocutore a Bruxelles”.

 
La rivoluzione (verde) tradita

 Al capitolo green il piano riserva gli investimenti più corposi. Ma anche se le risorse allocate sono 74 miliardi è comunque difficile dare un giudizio sulla loro efficacia. E il motivo è che manca ogni riferimento agli impatti di questi progetti, nota GB Zorzoli, già docente al Politecnico di Milano e presidente onorario del Coordinamento Free.  “Ci troviamo difronte a un numero eccessivo di progetti, ma la quantità non produce qualità. Avere visione vuol dire avere la capacità di inquadrare i singoli problemi in un’ottica coerente tra loro, un aspetto che nel piano manca”. Il suggerimento è di ridurre il numero di progetti, eliminando quelli non cantierabili in tempi rapidi, che mettono a rischio l’esecuzione del piano e l’erogazione delle successive tranche. I progetti che possono fare sinergia tra loro andrebbero poi collocati in una cornice comune. Un esempio su tutti è quello dell’agricoltura sostenibile, che per il nostro paese è una delle scommesse più importanti, dice Zorzoli. Il piano destina a questo progetto 1,8 miliardi ma non lo include nel capitolo della transizione energetica. “E’ un errore. Come ha chiarito l’Unione europea l’agricoltura sostenibile non può essere finalizzata solo alla produzione di cibo, si regge soltanto se include anche energia e materie prime e per questo non può essere considerata un capitolo a sé stante ma come una parte del più ampio obiettivo della transizione energetica”. Allo stesso modo la mobilità sostenibile non può essere discussa senza tenere conto dello sviluppo del territorio. “Il fatto che l’Italia abbia un record di automobili in circolazione in confronto al numero di abitanti ci dice molto dell’organizzazione territoriale del paese, che deve essere ripensata in maniera organica”. C’è poi il tema dell’equità sociale. L’Europa ha chiarito che non ci può essere sviluppo sostenibile senza equità sociale. “Così com’è il piano rischia non solo di fare restare indietro il paese dal punto di vista dello sviluppo sostenibile, ma anche di lasciare indietro le persone. Si parla di mobilità sostenibile ma non si parla delle filiere dell’automotive direttamente coinvolte in questa transizione, come quella componentistica italiana legata ai motori tradizionali che deve intraprendere un importante processo di riconversione. Nella stessa situazione c’è il downstream petrolifero, altro comparto che sta cercando di trasformarsi e che in questo processo deve essere tenuto in considerazione”. 

 
Infrastrutture senza riforme

Trasporti e infrastrutture sono una voce di spesa importante nel piano nazionale di ripresa e resilienza, che mobilitano 18,5 miliardi di euro per la mobilità locale sostenibile e transizione energetica e 27,7 miliardi per le relative infrastrutture. Ma come nota Andrea Giuricin, docente alla Bicocca e ceo di TRA consulting, “la Commissione europea ha più volte ricordato che non è necessario solo spendere i soldi che arrivano dai prestiti e dai fondi dell’Unione, ma è importante accompagnare questa spesa con delle riforme serie dei settori”. E nel piano, fatta eccezione per i porti e le dogane, non c’è traccia di riforme per ferrovie, trasporto pubblico locale e trasporto aereo. “Se lo stato stanzia miliardi di euro per rinnovare la flotta alle aziende di trasporto pubblico locale, ma queste continuano a essere inefficienti, questi soldi verranno sprecati”, dice Giuricin. “Bisognerebbe piuttosto pensare a procedure di gara obbligatorie in modo da avere una concorrenza per il mercato con la contemporanea creazione delle competenze per gli enti che metteranno a gara il servizio”, aggiunge. Altro punto essenziale è “la separazione tra chi gestisce l’operatore di trasporto pubblico locale e chi indice la gara, cosa che in Italia non avviene mai”. “L’Italia sembra essere avversa alla concorrenza, non è contemplata nel capitolo legato ai trasporti, e questo ha una conseguenza molto grave: mettere più soldi pubblici in un settore dei trasporti non riformato è come mettere acqua in un bidone bucato”.

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Istruzione e ricerca senza futuro

“La bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) continua a cambiare ma rimane costante l’assenza di un piano di investimenti coerente in istruzione, ricerca scientifica, trasferimento tecnologico e innovazione. Le indicazioni non esprimono una strategia per il futuro del paese e dei giovani che tra dieci o quindici anni dovranno svolgere professioni competitive sul mercato globale”. A pensarla così è Federico Ronchetti, fisico dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) e capo delle operazioni di “Alice”, progetto del Cern, che stima in circa 13 miliardi i contributi del piano alla ricerca, inclusi 4 miliardi in formazione per dottorandi e ricercatori, anche se la sommatoria non è semplice, spiega, visto che i fondi sono distribuiti su una miriade di voci diverse. “Ma il problema è che le risorse del Next Generation Eu verranno autorizzate solo per investimenti e non per spesa corrente come, per esempio, quella in risorse umane (assunzioni di personale ricercatore) che si prolungherebbe oltre il termine del 2026. Tale voce andrebbe messa quindi sul bilancio dello stato, il che per l’Italia è difficile, dato il deficit, ma non impossibile. Infatti, grazie un’adeguata spending review anche sul modello di quella proposta da Carlo Calenda sarebbe possibile finanziare alcune voci del Piano Amaldi con fondi ordinari usando ad esempio parte del Fondo Patrimonio delle Piccole e Medie Imprese che, varato nel 2019, è tuttora sostanzialmente inutilizzato”. 


“Purtroppo – continua Ronchetti – allo stato attuale manca una vera volontà politica di portare l’Italia ad assumere un ruolo importante come potenza tecnico-scientifica, e quindi economica, nel sud del continente europeo. L’uso delle risorse del Next Generation Eu potrebbe rappresentare un importante innesco, che comunque non potrà essere compiuto solo con la benevolenza e gli aiuti dei nostri partner europei ma solo avendo chiaramente in testa gli obiettivi da raggiungere, le strategie, le priorità di investimento e le riforme da implementare”.

 
La parità di genere nel calderone

Sul tema della parità di genere ci sono tutte le condizioni per imprimere un cambiamento, dice Veronica De Romanis, economista e docente di Economia europea alla Luiss Guido Carli. “Ci sono i dati, chiari e allarmanti, che dicono che le donne sono le più penalizzate da questa pandemia. Ci sono le indicazioni chiarissime di Bruxelles sulla necessità di aumentare l’occupazione femminile e ci sono i soldi: non era mai successo che un governo disponesse di così tante risorse”. E allora cosa c’è che non va nel piano? “Non va bene il metodo e non si vede un contesto in cui inserire le misure previste. Le donne non sono una categoria da infilare in un capitolo insieme ai progetti per la Sardegna o allo sport. Serve un approccio organico e trasversale, che tenga conto delle infrastrutture necessarie, della formazione e di una riforma del welfare che consenta a tutto questo di tenersi in piedi: inutile dire che investiamo negli asili nido se poi dentro al bilancio pubblico non abbiamo una spesa corrente destinata a finanziarli. Se non c’è a corollario un welfare completamente diverso l’investimento è una cattedrale nel deserto”. “Sappiamo che se aumenta l’occupazione femminile aumenta il pil, si mitigano le diseguaglianze e si interviene sul problema demografico italiano: invertire la curva delle nascite è indispensabile per uscire dalla crisi”. Sulle risorse, De Romanis prova a tracciare un bilancio confrontando la spesa destinata alla parità di genere con quella allocata su altre misure: “Al cashback sono destinati 5 miliardi ed è una misura che non serve per la ripresa e la resilienza, con effetti probabilmente regressivi che avvantaggia i ricchi. 4,2 miliardi per le donne alla luce di questo confronto sembrano assolutamente pochi. Basta pensare che se vogliamo raggiungere il 60 per cento dell’offerta degli asili nido, come auspica il piano Colao, servono 12 miliardi”. Ma non c’è solo un tema di risorse e progetti, sottolinea De Romanis, c’è anche una questione di cambiamento culturale. “Le donne non esistono nel processo decisionale e sono le più penalizzate dalla crisi. Immaginare un’inversione di rotta appare complicato se pensiamo che alla tavolo della commissione Colao non sedevano donne, una svista di cui il premier Giuseppe Conte non si era neppure accorto, prima di rimediare goffamente”.  

 
Il Mezzogiorno a tutti i costi

“E’ difficile dire che cosa è condivisibile e cosa no perché sappiamo veramente poco del come, delle modalità di esecuzione del piano, degli obiettivi specifici, dei singoli punti. La tabella con i 52 progetti non prevede che dei titoli”. Nicola Rossi, economista dell’Università di Roma Tor Vergata, ha più di un dubbio sul capitolo dedicato alla coesione territoriale. Se le risorse previste siano sufficienti – 3,9 miliardi di euro – è complicato da stimare, spiega Rossi. “L’intero Recovery plan è interamente a debito. Anche la parte di grant, erogati perché l’Ue fa a sua volta debito. E’ quindi fondamentale che qualsiasi cosa si faccia abbia un rendimento sociale tale da permetterci di rimborsare quel debito che  stiamo facendo. Dire se un certo quantitativo di risorse sia tanto o poco dipende  da questo, dalle ricadute sociali ed economiche che quegli investimenti devono generare”. Fatta questa premessa si capisce che l’investimento a tutti i costi rischia di produrre più danni che benefici: “Se abbiamo progetti per il Mezzogiorno in grado di garantire questo tipo di rendimento benissimo, ma se non ce li abbiamo, porre semplicemente una quota obbligata per il sud è insensato e crea solo un problema serissimo di sostenibilità del debito”.

  
Sanità senza approccio di sistema

I 9 miliardi di euro destinati alla Sanità hanno sollevato dibattito tra i partiti di governo. Sono tanti  o pochi? Soprattutto, sono destinati a progetti in grado di far fare alla rete sanitaria quel salto di qualità necessario per affrontare possibili  picchi pandemici? “Sicuramente le aree di intervento individuate colgono alcuni punti condivisibili”, spiega Fabio Pammolli, docente del Politecnico di Milano e direttore scientifico della Fondazione Cerm. “Ma manca organicità sui due aspetti: qual è il piano complessivo di investimenti in conto capitale e qual è l’utilizzo degli strumenti finanziari da utilizzare”. “Abbiamo una rete ospedaliera vecchia e questo non è rilevante solo in termini di qualità del servizio erogato, ma anche per la spesa corrente e perché molte di queste strutture non sono pandemic proof. L’entità dell’investimento in conto capitale che sarebbe necessario anche solo per modernizzare la rete ospedaliera richiederebbe di riconsiderare delle decisioni che sono state prese sul Mes”. L’altro aspetto riguarda la scelta degli strumenti finanziari da utilizzare, che dovrebbero fare da leva ed essere impiegati in modo da generare ulteriori investimenti. “Nella sanità, cosi come in altri comparti, si tratta di prendere una decisione su come vogliamo usare il finanziamento europeo. Sia quello in forma di prestiti sia quello in forma di grant, che possono diventare l’innesco per finanziamenti in partnership pubblico-privato in grado di mobilitare competenze ingegneristiche e finanziarie all’altezza delle sfide che ci attendono”. 

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