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L’Agenda Draghi e la necessità di riformare il diritto fallimentare

Giuseppe Portonera e Nicola Rossi

Consentire la ristrutturazione degli stati patrimoniali di imprese minacciate da problemi di insolvenza è certamente preferibile a soluzioni “punitive”

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In “These truths. A history of the United States”, Jill Lepore – storica americana fra le più note – racconta che quello del 1837 fu uno dei peggiori disastri finanziari della storia americana. Un disastro che aprì la strada a sette anni di profonda depressione e ai cosiddetti Hungry Forties, gli “affamati anni Quaranta” dell’Ottocento. Fra le altre cose, il panico del 1837 portò all’abolizione delle prigioni e alla “democratizzazione” della protezione per i debitori. La legge federale approvata nel 1841 fu abolita due anni dopo ma il principio rimase in vigore: si poteva dichiarare bancarotta e ricominciare da capo (fresh start). Le leggi fallimentari federali – pur fra ripetute modifiche – resero meno rischiosa l’assunzione di rischio e contribuirono non poco all’ondata di investimenti della seconda metà del secolo. E’ difficile non andare con la mente a questa vicenda rileggendo alcune fra le pagine più interessanti dell’ormai noto rapporto del Gruppo dei Trenta presieduto da Mario Draghi e Raghuram Rajan e, in particolare, le pagine sull’impatto dell’emergenza pandemica ancora in corso sulla legislazione sulla crisi di impresa. Nel rapporto si sostiene che consentire la ristrutturazione degli stati patrimoniali di imprese potenzialmente ancora vitali ma minacciate da problemi di insolvenza indotti dalla crisi (e, sarebbe più opportuno dire, dalla sequenza di crisi intervenuta nell’ultimo quindicennio) è certamente preferibile a soluzioni “punitive”, il cui unico risultato è quello di distruggere valore. Si sottolinea la necessità di apprestare per tempo le misure necessarie per affrontare l’ondata di casi di crisi d’impresa che presumibilmente si manifesterà nel momento in cui le “strutture protettive” messe in campo negli ultimi mesi finiranno per cadere.

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In “These truths. A history of the United States”, Jill Lepore – storica americana fra le più note – racconta che quello del 1837 fu uno dei peggiori disastri finanziari della storia americana. Un disastro che aprì la strada a sette anni di profonda depressione e ai cosiddetti Hungry Forties, gli “affamati anni Quaranta” dell’Ottocento. Fra le altre cose, il panico del 1837 portò all’abolizione delle prigioni e alla “democratizzazione” della protezione per i debitori. La legge federale approvata nel 1841 fu abolita due anni dopo ma il principio rimase in vigore: si poteva dichiarare bancarotta e ricominciare da capo (fresh start). Le leggi fallimentari federali – pur fra ripetute modifiche – resero meno rischiosa l’assunzione di rischio e contribuirono non poco all’ondata di investimenti della seconda metà del secolo. E’ difficile non andare con la mente a questa vicenda rileggendo alcune fra le pagine più interessanti dell’ormai noto rapporto del Gruppo dei Trenta presieduto da Mario Draghi e Raghuram Rajan e, in particolare, le pagine sull’impatto dell’emergenza pandemica ancora in corso sulla legislazione sulla crisi di impresa. Nel rapporto si sostiene che consentire la ristrutturazione degli stati patrimoniali di imprese potenzialmente ancora vitali ma minacciate da problemi di insolvenza indotti dalla crisi (e, sarebbe più opportuno dire, dalla sequenza di crisi intervenuta nell’ultimo quindicennio) è certamente preferibile a soluzioni “punitive”, il cui unico risultato è quello di distruggere valore. Si sottolinea la necessità di apprestare per tempo le misure necessarie per affrontare l’ondata di casi di crisi d’impresa che presumibilmente si manifesterà nel momento in cui le “strutture protettive” messe in campo negli ultimi mesi finiranno per cadere.

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Per usare le parole del rapporto, “un numero significativo di imprese uscirà dalla crisi in corso con un solido modello di business ma con bilanci non altrettanto solidi, laddove molte legislazioni sulla crisi d’impresa tendono a dare per scontato che bilanci non in buona salute siano l’espressione di attività economiche senza futuro”. Seguono una serie di indicazioni a cui in questo momento – quando il tempo non manca per prepararsi alle emergenze che arriveranno quando l’emergenza sarà finita – i legislatori dovrebbero prestare grande attenzione. Fra essi anche – se non soprattutto – il legislatore italiano che, per il momento, si è affrettato a spostare al settembre 2021 l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa varato solo nel gennaio 2019. Con ciò rendendo esplicita quella che è ormai una convinzione ampiamente diffusa: le disposizioni contenute nel Codice non sono le più idonee a favorire il risanamento delle imprese in difficoltà e, al contrario, possono finire, all’atto pratico, per renderlo più complicato. Per essere ancora più chiari: la riforma del 2019 è stata mal disegnata e, se possibile, ancora peggio realizzata e dunque è meglio cogliere la palla al balzo e rinviarne l’applicazione. Due aspetti destano particolare preoccupazione. Il primo è rappresentato dalla disciplina della procedura di allerta, che il legislatore ha introdotto, sulla scorta dei principi elaborati dall’Uncitral, dalla Banca Mondiale e dall’Unione europea, nella consapevolezza per cui “il ritardo nel percepire i segnali di una crisi fa sì che, nella maggior parte dei casi, questa degeneri in vera e propria insolvenza sino a divenire irreversibile”.

 

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Tuttavia, la procedura si presenta come fortemente burocratizzata e per certi aspetti persino “de-responsabilizzante”. Difatti, se gli organi di controllo e revisione segnalano “tempestivamente” la possibile situazione di crisi, non risponderanno delle future conseguenze pregiudizievoli: è difficile immaginare che non finiranno per affidarsi a una valutazione “acritica” e automatica del rischio, sì da evitare responsabilità personali. La procedura sembra quindi orientata non tanto dalla volontà di aumentare l’autoconsapevolezza del soggetto in crisi, quanto da quella di forzargli la mano, in questo distanziandosi dal modello di early warning disegnato dal diritto europeo. In altre parole, essa non si è del tutto emancipata dal tradizionale “sospetto” che circonda l’evento del fallimento (e la persona del fallito): sicché, dietro il paravento della commendevole intenzione di cercare una soluzione alla crisi, si intravede il tentativo di mettere sotto stretta sorveglianza l’impresa, per evitare non tanto l’esito del fallimento, quanto piuttosto temute frodi. Il secondo dato è il permanere delle difficoltà che il soggetto in crisi incontra nell’accedere a una “seconda occasione” per fare impresa. Se è vero che il Codice ha esteso la platea dei soggetti che possono beneficiare dell’esdebitazione, è altrettanto vero che quest’ultima non è un fine in sé: essa ha senso solo se l’imprenditore è stato effettivamente messo nella possibilità di rigenerare l’attività ovvero se ha consapevolmente scelto di terminarla, e se ha avuto la possibilità di farlo in tempi rapidi e certi. In questo senso, quindi, la possibilità di un fresh start dipende da come è stata gestita la fase della crisi: e, purtroppo, la già rilevata macchinosità delle procedure di allerta, cui si aggiunge la criticabile decisione di “irrigidimento” della disciplina del concordato preventivo con continuità aziendale, fa temere che la “seconda occasione” sarà, tutt’al più, un miraggio. Meglio sarebbe stato ispirarsi, come ha fatto il legislatore europeo e come è suggerito anche dal rapporto del Gruppo dei Trenta, al modello rappresentato dal Chapter 11 statunitense, ad esempio attribuendo al debitore poteri simili a quelli del debtor-in-possession, per consentirgli di dimostrare la propria serietà circa le intenzioni di risanamento aziendale.

 

Il rapporto del Gruppo dei Trenta sottolinea come l’emergenza pandemica rappresenti, sotto questi profili, una insperata opportunità: quella di rivedere la logica e la meccanica delle legislazioni sulla crisi di impresa. In questa attività il legislatore italiano – con tutti i suoi limiti, sempre più evidenti con il passare del tempo – dovrebbe essere in prima linea. Le scelte di natura emergenziale adottate nel 2020 stanno generando delle bolle con le quali prima o poi bisognerà fare i conti. A parte il debito (che non è una bolla ma è una condanna), quella connessa al blocco dei licenziamenti. Quella legata ai prestiti garantiti accordati durante l’emergenza. Quella, infine, derivante dal fatto che si è trattata una perdita significativa e non recuperabile di fatturato come un semplice rallentamento congiunturale, rinviando e spostando in avanti termini e scadenze che prima o poi finiranno per maturare. E che, lo sappiamo fin d’ora, molti non saranno in grado di onorare. In questo contesto, il Codice prodotto dalla riforma del 2019 è già lettera morta. Vero è che alcuni necessari aggiustamenti sono già stati introdotti, nell’ottobre 2020, con un apposito “decreto correttivo”, ma molto resta ancora da fare. Nell’interesse comune, il Parlamento si metta rapidamente al lavoro. Senza investimenti privati non ne usciremo. Piaccia o no, il Recovery plan è fatto anche – se non soprattutto – di queste cose.

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