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Europa vs Usa

Si fa presto a dire webtax

Carlo Stagnaro

Ecco perché lo scontro fra Europa e colossi come Facebook e Amazon è destinato a continuare anche con Joe Biden. Per gli americani la webtax rimane una pratica commerciale scorretta

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La Francia chiede una webtax europea dal 2021, a meno che non si sblocchi il negoziato che va avanti da anni in sede Ocse, senza apparente via d’uscita. Intanto, diversi stati membri dell’Unione si sono mossi per contro proprio: per ora, Francia, Austria e Italia. E il presidente della regione Piemonte, Alberto Cirio, ha lanciato un’imposta regionale del 30 per cento dei ricavi delle Big Tech (bum!). Tutte queste proposte poggiano su un presupposto a dir poco fragile: che, cioè, le piattaforme occultino i profitti per evadere le tasse, e che quindi l’unica soluzione sia quella di colpirne i ricavi.

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La Francia chiede una webtax europea dal 2021, a meno che non si sblocchi il negoziato che va avanti da anni in sede Ocse, senza apparente via d’uscita. Intanto, diversi stati membri dell’Unione si sono mossi per contro proprio: per ora, Francia, Austria e Italia. E il presidente della regione Piemonte, Alberto Cirio, ha lanciato un’imposta regionale del 30 per cento dei ricavi delle Big Tech (bum!). Tutte queste proposte poggiano su un presupposto a dir poco fragile: che, cioè, le piattaforme occultino i profitti per evadere le tasse, e che quindi l’unica soluzione sia quella di colpirne i ricavi.

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E’ un’affermazione sia falsa sia erronea. Tant’è che le autorità fiscali europee intervengono con successo contro le imprese digitali (esattamente come fanno con quelle tradizionali) ogni volta che sentono puzza di bruciato. Proprio in questi giorni, da Parigi stanno partendo cartelle esattoriali alla volta di Facebook e Amazon, e così altrove (inclusa l’Italia, dove l’Agenzia delle entrate negli scorsi anni ha messo a segno enormi operazioni di recupero). Ma, più importante, c’è un tema cruciale: i profitti sono normalmente tassati dove viene creato il valore (il luogo della produzione). Un produttore di rubinetti versa l’equivalente dell’Ires al paese nel quale ha gli stabilimenti industriali: allo stesso modo, i profitti delle imprese che sviluppano proprietà intellettuale non vanno tassati dove i loro prodotti sono consumati, ma dove vengono sviluppati. Paradossalmente, non è l’Europa a doversi lamentare.

 

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Come ha scritto Dario Stevanato, “trattandosi di multinazionali americane, a essere erosa è la potestà impositiva degli Stati Uniti, non quella dei paesi europei. Per questi ultimi, è del tutto indifferente che abbiano sede o meno in uno stato a bassa fiscalità: in mancanza di una stabile organizzazione sui loro territori, la potestà impositiva di questi stati sui profitti è sempre pari a zero” (Il Foglio, 12 settembre 2017). La rincorsa ai profitti digitali nasconde un gigantesco “vorrei ma non posso”, ben esplicitato dalle uscite del Commissario Thierry Breton: gli europei non si capacitano che non ci siano “nostre” imprese tra i colossi online. Altrimenti sarebbe difficile spiegare l’accanimento contro le big americane, che si declina non solo sul fronte fiscale ma anche su quelli della concorrenza, dei dati e degli agognati campioni europei (come la Netflix italiana di Dario Franceschini o l’Amazon italiana di Maurizio Martina).

 

Intendiamoci: ciascuna di queste iniziative può avere i suoi fondamenti, ma enfasi e sistematicità che le accompagnano lasciano pochi dubbi sui moventi politici. Se è vero che dal digitale passa una delle strade verso la competitività, allora l’Europa dovrebbe interrogarsi su come colmare il gap, anziché tentare – senza riuscirci e senza neppure volerlo fino in fondo – di bucare il pallone dei rivali a stelle e strisce. E questo porta al tema dei rapporti transatlantici. Lo scontro esploso sotto la presidenza di Donald Trump – il quale, peraltro, non è un simpatizzante della Silicon Valley e dintorni – difficilmente potrà essere ricucito con Joe Biden (il quale ricorda benissimo le tensioni di Bruxelles con Barack Obama, sul punto).

 

La Casa Bianca continuerà a difendere gli interessi delle aziende americane, specie quando – come in questo caso – ha in mano argomenti solidi. Chiunque sia il trade representative di Biden, erediterà il dossier predisposto dall’uscente, Robert Lighthizer, e continuerà a qualificare i tentativi europei di webtax come pratiche commerciali scorrette. Si accettano scommesse. Se l’Europa vuole impegnarsi per ricucire un rapporto sfilacciato approfittando della nuova amministrazione, dovrebbe quanto meno porsi il problema ed evitare di aprire il dialogo mettendole un dito nell’occhio. Se le cose stanno così, la domanda allora è: cui prodest?

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I governi europei sanno benissimo che le tasse digitali, seppure formalmente prelevate dalle imprese online, in realtà incidono sui consumatori dei loro prodotti. Sperano di raccogliere un doppio dividendo: proteggere le aziende europee, tecnologicamente più arretrate, dalla concorrenza americana; e aggiungere gettito fiscale senza che i contribuenti se ne rendano conto. Se l’obiettivo è trovare risorse europee per alimentare Next Generation Eu, i politici farebbero bene a chiedersi come sostituire la tassazione Ue a quella nazionale, anziché aggiungerne in un continente già stremato dalla recessione e dal fisco. Per il resto, purtroppo o per fortuna, non si può fermare internet con le tasse.

 

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