Il nuovo imprenditore
Non possiamo affidarci solo allo stato. Ma servono innovazione e ricerca per un’imprenditorialità schumpeteriana
L’imprenditore è colui che scopre e coglie opportunità di business esistenti sui mercati o invece è colui che crea in prima persona quelle opportunità? Questo interrogativo ci porta a discutere del grande assente nel dibattito sulla ripresa economica del nostro paese: l’imprenditoria.
L’imprenditore è colui che scopre e coglie opportunità di business esistenti sui mercati o invece è colui che crea in prima persona quelle opportunità? Questo interrogativo ci porta a discutere del grande assente nel dibattito sulla ripresa economica del nostro paese: l’imprenditoria.
Rischiamo di puntare tutto sul ruolo propulsivo dello stato e delle infrastrutture perdendo di vista il fatto che è l’impresa privata il vero motore dello sviluppo, ci ricordano Francesco Giavazzi sul Corriere e Giuseppe Berta sul CorriereEconomia. Storicamente il nostro mercato nazionale e la domanda interna sono insufficienti per sostenere la crescita e quindi il nostro sviluppo non può che essere trascinato dall’export. Le imprese private sono quelle che sanno esplorare i mercati esteri e vendere prodotti in altre regioni e trascinare così la crescita.
Questo è il modello che abbiamo adottato negli anni del boom economico e cruciale fu, allora, il ruolo di imprenditori come Zanussi, Fumagalli e Merloni, l’era degli elettrodomestici, della Vespa e della Lambretta. Ma va anche detto che negli anni ’50 e ’60 eravamo un paese inseguitore e ci era sufficiente imitare e migliorare le tecnologie e i prodotti già realizzati dai paesi più avanzati. L’Italia è oggi un paese avanzato, vicino alla frontiera tecnologica. La sfida nel 2020 è quella dell’innovazione, non più dell’imitazione.
La stessa figura dell’imprenditore è mutata nei due scenari. Negli anni ’50 e ’60, l’informazione disponibile e i paesi più avanzati erano le basi per “prevedere” cosa potesse essere progettato e prodotto. Le “nuove” imprese italiane del dopoguerra erano simili a quelle esistenti altrove. Erano decenni in cui il contesto economico e sociale era stabile e prevedibile. L’imprenditore era colui che seguiva un processo di opportunity-discovery. L’opportunità in qualche maniera era lì e andava semplicemente colta.
Nel 2020, i “nuovi” imprenditori devono saper creare le opportunità di business non semplicemente scoprire ciò che già è disponibile. L’imprenditorialità nuova è quella che cerca di controllare e dare forma al futuro, di indirizzare i processi e le scelte dei consumatori, perché tanto non è possibile prevedere. La nuova imprenditorialità, quella che crea sentieri nuovi, genera valore, posti di lavoro e ricadute su altri comparti si fonda oggi su ricerca e innovazione. Il digitale, la sfida dell’eco-sostenibile, l’internet of things, i big data, le bio-tecnologie, i nuovi materiali, l’idrogeno, le auto self-driving, l’economia circolare esigono ricerca, competenze, visione, immaginazione. Ma servono competenza tecnologica e scientifica.
Questa nuova imprenditorialità “schumpeteriana” di cui l’Italia ha bisogno necessita delle università, dei centri di ricerca, di istituzioni e mercati finanziari capaci di sostenere gli altissimi rischi connessi con lo sviluppo dei nuovi prodotti. Non è imprenditorialità isolata ma che germoglia e si afferma in ecosistemi adeguati, fatti di partner industriali capaci di cogliere e valorizzare le tecnologie sviluppate in un dipartimento di bio-tecnologia. Serve un contesto adeguato insomma. I motori sono l’innovazione e l’imprenditorialità schumpeteriana. E allora servirebbero politiche volte a favorire questi due fenomeni interconnessi. In questo nuovo scenario è difficile del resto immaginare che possano essere riutilizzati vecchi strumenti, che pure negli anni ’50 e ’60 furono utili, come l’Iri o l’Eni. Allora si trattava di fare le autostrade o l’acciaio o portare i telefoni nelle case degli italiani. Tutte cose note, disponibili altrove che bastava copiare. In queste attività, l’impresa pubblica era utile. Si fatica a immaginare che un’impresa pubblica, con tutto ciò che questo significa in Italia, possa fare innovazione in un contesto come quello attuale.
Questo non vuol dire che il pubblico non possa e debba fare ricerca di base. Le università possono e devono diventare incubatori di questa nuova imprenditorialità. La scelta seguita per molti anni di anni di tagliare gli investimenti in ricerca e i fondi alle università non è certo frutto di questa visione. Servono inoltre soggetti finanziari capaci di accudire e sostenere questa nuova imprenditorialità.
Sono 205.137 i laureati che in Italia hanno fondato un’impresa tra il 2004 e il 2018, non sono pochi. Costituiscono il 3,9 per cento delle imprese presenti in Italia a settembre 2019. E le loro imprese sono più vitali, hanno un tasso di crescita e di sopravvivenza più alto, assumono forme giuridiche più complesse e contribuiscono a creare opportunità di lavoro anche nelle zone più in difficoltà, come al Sud. La domanda pubblica, ad esempio, può svolgere una funzione di stimolo alla nascita e al decollo della nuova imprenditorialità. La Silicon Valley nacque anche grazie alle enormi risorse messe a disposizione dalle commesse del Pentagono. Una domanda pubblica verso il settore sanitario può oggi stimolare progetti nuovi nel biomedicale e nei comparti delle scienze della vita. E lo stesso potrebbe avvenire sulla mobilità e su altri settori come l’idrogeno.
La spesa pubblica non deve essere solo strade o nuovi edifici. Le università dovrebbero fare la loro parte e creare davvero degli hub di imprenditorialità, capaci di brevettare tecnologie e generare spin-offs. Ci vuole certo coraggio di scegliere, di individuare le forme di sostegno più efficaci, le tecnologie e i Dipartimenti più promettenti.