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Molto fumo e poco arrosto sulla vendita delle azioni da parte di Mr. Pfizer

Luca Enriques

Le accuse di immoralità e insider trading nei confronti di Albert Bourla nascondono i soliti sospetti su vaccino e capitalismo

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Il 9 novembre, il giorno stesso in cui Pfizer ha annunciato gli ottimi dati provvisori sull’efficacia del suo vaccino nella terza fase di sperimentazione, l’amministratore delegato Albert Bourla ha venduto parte delle sue azioni Pfizer, a un prezzo vicino ai massimi, con un ricavo di 5,6 milioni di dollari. Se avesse venduto il giorno prima, il ricavo sarebbe stato inferiore di 800 mila dollari. C’è chi ha gridato allo scandalo e lo ha accusato di aver così lucrato sulla pandemia. Altri hanno chiamato in causa l’insider trading o perlomeno la tempistica alquanto sospetta dell’annuncio. La prima accusa è di ordine puramente morale: è indubbio che parte del profitto di Bourla sia derivato da un balzo del prezzo delle azioni Pfizer che ha anticipato la messa sul mercato del vaccino contro il Covid-19. Senza la malattia, dunque, il profitto sarebbe stato con ogni probabilità inferiore. Ma se questo profitto è immorale, bisogna mettere in dubbio la moralità di tutti i profitti delle industrie farmaceutiche per qualunque cura. E’ una condanna morale poco meno che dell’intero sistema capitalistico, che ciascuno è libero di condividere o meno a seconda delle proprie convinzioni ideologiche.

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Il 9 novembre, il giorno stesso in cui Pfizer ha annunciato gli ottimi dati provvisori sull’efficacia del suo vaccino nella terza fase di sperimentazione, l’amministratore delegato Albert Bourla ha venduto parte delle sue azioni Pfizer, a un prezzo vicino ai massimi, con un ricavo di 5,6 milioni di dollari. Se avesse venduto il giorno prima, il ricavo sarebbe stato inferiore di 800 mila dollari. C’è chi ha gridato allo scandalo e lo ha accusato di aver così lucrato sulla pandemia. Altri hanno chiamato in causa l’insider trading o perlomeno la tempistica alquanto sospetta dell’annuncio. La prima accusa è di ordine puramente morale: è indubbio che parte del profitto di Bourla sia derivato da un balzo del prezzo delle azioni Pfizer che ha anticipato la messa sul mercato del vaccino contro il Covid-19. Senza la malattia, dunque, il profitto sarebbe stato con ogni probabilità inferiore. Ma se questo profitto è immorale, bisogna mettere in dubbio la moralità di tutti i profitti delle industrie farmaceutiche per qualunque cura. E’ una condanna morale poco meno che dell’intero sistema capitalistico, che ciascuno è libero di condividere o meno a seconda delle proprie convinzioni ideologiche.

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La seconda accusa è più specifica ma, a giudicare dalle informazioni rese note dalla società, priva di riscontri. Come è stato riportato, secondo Pfizer, il 19 agosto, quando sicuramente già si poteva anticipare che nell’autunno si sarebbe conclusa la fase 3 della sperimentazione del vaccino, Bourla mise in piedi un piano di vendita delle sue azioni che, nel periodo compreso tra la pubblicazione dei risultati trimestrali (27 ottobre) e una data successiva al 9 novembre, incaricava il suo broker di vendere le azioni non appena avessero raggiunto un prezzo predeterminato. Prezzo che evidentemente il titolo ha raggiunto il 9 novembre. Quanto è sospetto tutto ciò?

 

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Aver fatto un piano per la vendita delle azioni protegge Bourla dall’accusa di insider trading, in conformità alle norme della Securities and Exchange Commission (Sec) – la Consob americana – che espressamente esimono dall’illecito di insider trading le vendite in base a piani con determinate caratteristiche. Peraltro, è fin troppo ovvio che vendere le azioni dopo l’annuncio di un’informazione che fa salire il titolo non è insider trading, in quanto l’informazione in ipotesi sfruttata non è più riservata. Come pure è ovvio che Bourla si sarebbe macchiato di insider trading se avesse comprato le azioni l’8 novembre. Ma le azioni che ha venduto erano in suo possesso già da ben prima di agosto. Ma che dire della tempistica dell’annuncio? Se la ricostruzione della società è degna di fede, neanche quella è sospetta. Il piano, come detto, non prevedeva la vendita delle azioni il 9 novembre ma la vendita in un periodo intorno a quella data, ove il prezzo fosse salito oltre una certa soglia. Uno dei rimproveri mossi a Bourla (en passant anche dal professor Crisanti sul Corriere del 23 novembre) è che la vendita segnali la sua sfiducia nei confronti del vaccino. Ma perché ciò sia vero occorre ipotizzare che fin dal 19 agosto Bourla sapesse non solo che dopo il 27 ottobre sarebbero stati annunciati ottimi risultati provvisori sull’efficacia del vaccino, ma anche che, come purtroppo non si può escludere, i prossimi mesi dimostreranno che il vaccino è meno efficace di quel che i dati provvisori ci dicono. Se Bourla è amministratore delegato di uno dei giganti mondiali dei farmaci, qualcosa deve capirne. Ma forse ad agosto neanche a lui il quadro era così diabolicamente chiaro. Resta il dubbio sull’opportunità della scelta di prevedere una vendita così massiccia di azioni in una fase mediaticamente delicata della vita della sua società e dell’umanità intera, alle prese con un virus che solo i vaccini (o meglio la vaccinazione di massa) ci possono aiutare a vincere. Questo è un aspetto che anche ad agosto Bourla poteva mettere in conto. Considerato l’interesse planetario a che non si diffondano ulteriori dubbi sull’affidabilità dei vaccini e delle società che li producono, la leggerezza non è da poco.

 

Luca Enriques è professore di Corporate of law presso la University of Oxford

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