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L’anti virus delle imprese

Marcella Panucci*

La pandemia è uno stress test su vizi e virtù del sistema industriale. Trasformare i guai in opportunità si può ma a una condizione: più trasformazioni meno conservazioni. Indagine

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Una “rara storia di successo”, così qualche giorno fa il Financial Times definiva quello che l’industria è riuscita a fare durante la pandemia, nonostante, o forse grazie, a una congiuntura totalmente avversa. Questo conferma che le crisi creano opportunità di cambiamento, ma bisogna saperle cogliere. Già prima della pandemia alcuni segnali mostravano un rallentamento della globalizzazione: lo sviluppo delle filiere a livello internazionale aveva iniziato a frenare dopo la crisi del 2008. Le guerre commerciali, con l’aumento di costi dovuto all’introduzione di dazi, avevano innescato alcuni – limitati – processi di reshoring. Lo scoppio della pandemia ha inciso in maniera decisa sulla logistica e sulla sicurezza degli approvvigionamenti. Lo scrive bene Paolo Bricco in un suo recente pezzo su Il Sole 24ore. Questi due fatti non sono indifferenti rispetto alle dinamiche industriali. E’ prevedibile una accelerazione del processo di ricomposizione delle così dette supply chain, le catene di approvvigionamento. Già oggi le imprese europee stanno concentrando le proprie catene di fornitura sull’Europa.

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Una “rara storia di successo”, così qualche giorno fa il Financial Times definiva quello che l’industria è riuscita a fare durante la pandemia, nonostante, o forse grazie, a una congiuntura totalmente avversa. Questo conferma che le crisi creano opportunità di cambiamento, ma bisogna saperle cogliere. Già prima della pandemia alcuni segnali mostravano un rallentamento della globalizzazione: lo sviluppo delle filiere a livello internazionale aveva iniziato a frenare dopo la crisi del 2008. Le guerre commerciali, con l’aumento di costi dovuto all’introduzione di dazi, avevano innescato alcuni – limitati – processi di reshoring. Lo scoppio della pandemia ha inciso in maniera decisa sulla logistica e sulla sicurezza degli approvvigionamenti. Lo scrive bene Paolo Bricco in un suo recente pezzo su Il Sole 24ore. Questi due fatti non sono indifferenti rispetto alle dinamiche industriali. E’ prevedibile una accelerazione del processo di ricomposizione delle così dette supply chain, le catene di approvvigionamento. Già oggi le imprese europee stanno concentrando le proprie catene di fornitura sull’Europa.

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Abbiamo un 20% di imprese eccellenti, un 60% di imprese in transizione e un 20% di imprese marginali. Il futuro parte da qui

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Lo stesso accade nel resto del mondo. Nel Sud Est asiatico diverse imprese stanno separando le catene di fornitura, distinguendo tra le produzioni destinate al mercato cinese, rispetto alle quali gli impianti rimangono localizzati in Cina, e quelle destinate ad altri mercati, che si spostano nelle aree vicine (Taiwan, Vietnam, Sud Corea). Oltre alla sfida “geografica”, l’industria mondiale dovrà confrontarsi con almeno altri tre fattori di cambiamento: le dinamiche demografiche, la trasformazione digitale, la transizione energetica e ambientale. Fattori che impatteranno sul lavoro, sui processi produttivi, sulle fonti energetiche. Durante la pandemia il digitale si è rivelato essenziale per permettere di portare avanti processi e servizi, primi fra tutti quelli sociali, nonostante gli estesi lockdown. Ma, soprattutto, il digitale è strategico per raggiungere nuovi clienti e mercati e per consentire personalizzazioni dei prodotti e concezione di nuovi servizi pre e post-vendita, ormai sempre più richiesti da clienti industriali e non. A ciò si aggiunga la sfida ambientale: l’accordo di Parigi del 2015, che a breve dovrebbe vedere il ritorno degli Stati Uniti, con le conseguenti scelte europee sul Green Deal, pongono al sistema industriale obiettivi ambiziosi in termini di decarbonizzazione, riduzione delle emissioni, economia circolare. E da ultimo, ma non per importanza, la tendenza demografica, che vede da tempo un progressivo invecchiamento della popolazione nei paesi avanzati, particolarmente pronunciato in Italia, con un aumento della crescita concentrato in Africa. In questo scenario come si colloca l’industria italiana? A febbraio di quest’anno Francesco Daveri ha pubblicato su Lavoce.info un’ottima ricognizione che mostra come, a fronte della perdita consistente di produzione industriale (pari al 23%) negli anni tra il 2007 e il 2013, l’industria italiana è riuscita a ripartire dal 2014, segnando risultati positivi in particolare nei settori della meccanica e della farmaceutica. Nonostante il rallentamento della crescita dal 2018, che vede entrare Italia e Germania in una recessione industriale, l’Italia rimane il secondo paese manifatturiero d’Europa, con un apporto dell’industria pari al 17% del PIL, contro il 21% della Germania e il 12% della Francia.

 

Sulle 878 mila società di capitali in Italia, 197 mila sono quelle più deboli  e 180 mila quelle più forti. Occhio agli squilibri patrimoniali  

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La resilienza del nostro settore industriale e la quota importante che questo rappresenta per l’Italia ha consentito un più rapido rimbalzo dopo l’estate. Sempre il Financial Times segnalava a fine ottobre che l’Italia, così come la Germania, grazie alla forte base manifatturiera, potrebbero registrare performance migliori rispetto a Spagna e Francia. Un’immagine delle nostre imprese diversa da quella fotografata, forse con qualche filtro distorcente, dall’Economist nel suo pezzo di qualche settimana fa. Tutte luci quindi? No, anche ombre. La divaricazione spesso citata da Vincenzo Boccia nei suoi anni da presidente di Confindustria tra un 20 per cento di imprese eccellenti, un 60 per cento di imprese in transizione e un 20 per cento di imprese marginali destinate a uscire dal mercato è ancora realistica. La scorsa settimana Cerved (un gruppo che opera come agenzia di informazioni commerciali, che valuta la solvibilità e il merito creditizio delle imprese) ha certificato, sulla base dei dati dei bilanci 2018 e 2019, che, sulle 878 mila società di capitali in Italia, 197 mila sono quelle più deboli (il 22,5%) e 180 mila quelle più forti (il 20,4%). Il rischio è che quel 20% di imprese deboli aumenti, una volta esaurite le misure emergenziali giustamente assunte dal governo negli scorsi mesi (garanzie pubbliche per l’accesso al credito, cassa integrazione, sospensione delle norme del codice civile sugli obblighi di ricapitalizzazione per perdite, per citarne alcune). 

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Molte imprese usciranno dalla crisi con forti squilibri patrimoniali. Oltre agli impatti sulla continuità aziendale, questa situazione produrrà effetti anche sugli investimenti. L’aumento del risparmio privato e l’accumulo della liquidità sui conti correnti bancari ne sono un indice evidente, con conseguenze, da un lato, sulla domanda, dall’altro, sulla capacità di upgrade tecnologico e organizzativo delle imprese, essenziale se si vuole reggere la competizione globale. Molte di queste imprese sono piccole. Dato di per sé non critico: sono tante le PMI che fanno parte di filiere dinamiche e mostrano ottimi risultati. Un fenomeno ben descritto da Marco Fortis proprio sulle pagine di questo giornale. Tuttavia, le piccole dimensioni, quando associate a un frequente ed esteso ricorso al credito bancario come unica o principale fonte di finanziamento, a una scarsa managerializzazione, a una governance obsoleta e a una bassa propensione a innovare, accentuano la fragilità e la scarsa capacità di resistere rispetto a choc esterni. E questo è un rischio per gli imprenditori e i loro lavoratori, ma anche per l’intero sistema economico.

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Grazie alla  base manifatturiera l’Italia,  come la Germania, potrà registrare performance migliori rispetto a Spagna e Francia

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Cosa fare allora? Primo: se la dimensione in sé non va demonizzata, essa va però rafforzata. Soltanto imprese più strutturate riescono a sostenere determinate tipologie di investimento e assumere profili professionali ad alta qualificazione. Negli ultimi anni molte sono state le misure in tema di finanza per la crescita che hanno introdotto nuovi strumenti finanziari e di raccolta del risparmio da indirizzare verso l’economia reale, incentivi fiscali alla capitalizzazione, norme di diritto societario (es. azioni a voto maggiorato, loyalty shares, ecc.). E un percorso che non va abbandonato ma al contrario potenziato. A partire dall’ACE, che va potenziata. Inoltre, come suggerito da autorevoli studiosi, si potrebbe pensare di condizionare la concessione (o una maggiorazione) di alcuni incentivi a percorsi di aggregazione/rafforzamento patrimoniale, applicabili anche alle imprese e alle loro filiere. Ci sono diversi esempi virtuosi in questo senso: la IMA di Alberto Vacchi e il Gruppo Marchesini hanno sperimentato alcuni modelli di successo in Emilia Romagna, assumendo partecipazioni in imprese della filiera con benefici rilevanti in termini di potenziamento delle imprese e quindi di sicurezza e qualità degli approvvigionamenti. Su questo vi erano alcune proposte interessanti nel rapporto della Commissione Colao, che potrebbero essere riprese. A fronte di ciò occorrerebbe esigere dalle imprese una migliore governance e una maggiore managerializzazione. Il rapporto Cerved mostra come il 20 per cento di imprese eccellenti sia caratterizzato da una governance robusta e da una maggiore presenza di manager esterni. In questo senso si potrebbe partire condizionando l’intervento del Fondo Patrimonio PMI, introdotto con il Decreto Rilancio, all’adozione di una serie di principi di buona governance. Il Codice per le Growth Companies adottato qualche anno fa da Assonime e Confindustria potrebbe essere un buon riferimento. L’intervento pubblico ha senso se diventa la miccia che innesca processi virtuosi. Secondo: investire sulle persone. La presenza di laureati è bassa nelle imprese italiane, ovviamente non in tutte, rispetto alla media europea. Alzare il livello di qualificazione (laurea, master, dottorati) delle figure professionali nelle imprese a partire dai giovani, ma non solo, è essenziale e funzionale alla capacità di innovare, organizzare e gestire in maniera moderna i processi di produzione, il ricorso alla finanza, la trasformazione digitale, le attività immateriali (comunicazione, marketing, valorizzazione delle risorse umane). Allo stesso modo è essenziale che tutti i lavoratori abbiano una base comune e minima di conoscenze e competenze digitali, al di là delle rispettive specializzazioni. Oltre a potenziare gli investimenti pubblici su scuola, università e formazione, in modo che il nostro sistema sia in grado di preparare le persone al mondo del lavoro, e sostenere l’accesso all’istruzione delle fasce più deboli con risorse e dotazioni adeguate, bisognerebbe introdurre misure incentivanti (sconti contributivi e fiscali) per le imprese che assumono profili con alte qualifiche professionali. Allo stesso tempo bisogna sostenere l’occupazione femminile, anche per far fronte alla dinamica demografica negativa, attraverso una adeguata infrastrutturazione sociale (asili nido, sostegni alla famiglia), nonché gestire in maniera intelligente i flussi migratori, cercando di attrarre immigrazione qualificata che possa colmare gli squilibri demografici che ci porteranno nei prossimi anni ad avere un paese vecchio con poche prospettive di crescita. Terzo: investimenti. L’industria italiana deve essere al centro dei grandi processi di trasformazione tecnologica, digitale, green in coerenza con gli indirizzi di politica industriale tracciati dall’Europa. In un libro presentato di recente da Confindustria, “Il coraggio del futuro – Italia 2030-2050”, ci sono spunti che possono essere valorizzati:

1. innanzitutto in tema di ricerca e innovazione, dove vanno potenziati tutti gli strumenti esistenti: credito di imposta, patent box, che hanno mostrato di funzionare bene anche grazie agli automatismi e alla semplicità di utilizzo, ai quali occorre aggiungerne altri (negoziali e a bando) per i grandi progetti pubblico-privati, nonché attivare grandi progetti-paese, che si integrino con le azioni avviate a livello UE per identificare le catene del valore strategiche (IPCEI).

2. Bisogna continuare a sostenere la domanda di tecnologie 4.0: il piano Impresa 4.0 ha prodotto ottimi risultati e va potenziato. In questo senso si potrebbero anche riprendere le proposte formulate da Fabrizio Onida in un suo pezzo sul Sole 24 ore, prevedendo maggiorazioni degli incentivi per progetti di particolare pregio.

3. L’Italia deve essere all’avanguardia nel sostenere la transizione verde, agendo su tre versanti: l’utilizzo di fonti energetiche non (o meno) inquinanti rispetto alle fonti fossili; l’economia circolare; una maggiore efficienza nei consumi. Per farlo servono innanzitutto impianti. La capacità impiantistica del nostro paese è oggi molto carente e va decisamente innalzata. Senza impianti non saremo mai in grado di raggiungere gli obiettivi di economia circolare. Inoltre, per prevenire la produzione di rifiuti è necessario sostenere un programma di investimenti per lo sviluppo dell’ecoprogettazione e di tecnologie innovative di riciclo e recupero. Infine, la transizione energetica si basa sulla trasformazione dell’offerta di tecnologie e sulle energie rinnovabili. Bene quindi investire su queste e sull’idrogeno, ma bisogna anche incidere sul fabbisogno di decarbonizzazione dei processi industriali e sulla promozione dell’approvvigionamento di energia rinnovabile nell’industria. Di conseguenza sarebbe opportuno immaginare strumenti che sostengano gli investimenti in tecnologie low carbon applicabili trasversalmente a tutti i settori industriali.

 

Gran parte delle azioni utili richiede l’esistenza di un sistema decisionale  efficiente. I  passaggi per non perdere il treno europeo 

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Dal PNRR (piano nazionale per la ripresa e la resilienza) su cui il nostro governo sta lavorando è auspicabile che venga una forte spinta in questa direzione. L’occasione è unica e non va sprecata. Allo stesso tempo, non sfugge che la gran parte delle azioni indicate richiedono l’esistenza di un sistema decisionale pubblico efficiente. Una profonda modernizzazione della Pubblica Amministrazione è quindi un prerequisito necessario. Un’industria forte e imprese resilienti creano resilienza, rendendo il sistema economico più solido e in grado di assorbire gli choc. E questo, nelle fasi di crisi, diventa essenziale per contenere i danni, soprattutto sociali, che abbiamo purtroppo sperimentato negli ultimi anni. Ma lo è ancor più nelle fasi di ripresa economica. Imprese più forti e competitive sono in grado di rafforzare il potenziale di crescita, creare occupazione qualificata e benessere per le comunità e i territori. Se c’è una lezione che dobbiamo imparare è ancora una volta questa. Perché la crisi sia occasione di trasformazione e non invece di conservazione.

 

*Marcella Panucci è stata direttore generale di Confindustria dal 2012 al 2020. Oggi è docente della Luiss. Questo è il suo primo articolo per il Foglio

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