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fusione o non fusione

Comma 22 per Mps

Stefano Cingolani

Il paradosso del Monte: per venderlo bisogna ricapitalizzare, ma se il Mef ricapitalizza il M5s non vuol vendere

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Il futuro del Monte dei Paschi di Siena è regolato dal “comma 22” della politica bancaria italiana, una trappola nella quale si è ficcato anche il governo. Il paradosso dei piloti americani secondo il romanzo di Joseph Heller era il seguente: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo. 

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Il futuro del Monte dei Paschi di Siena è regolato dal “comma 22” della politica bancaria italiana, una trappola nella quale si è ficcato anche il governo. Il paradosso dei piloti americani secondo il romanzo di Joseph Heller era il seguente: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo. 

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Nel nostro caso potremmo declinarlo così: il Tesoro deve vendere il Monte dei Paschi e per farlo è necessario iniettare nuovo capitale (da 1,5 a 2 miliardi di euro), ma se la banca viene risanata con i quattrini dei contribuenti, a che pro cederla? 

  
Roma si è impegnata con Bruxelles. Nel 2017 il governo Gentiloni ha varato una “nazionalizzazione temporanea” spendendo 5,4 miliardi di euro che non sono noccioline. Il 19 ottobre Giuseppe Conte ha firmato l’impegno a privatizzare il Monte nel 2022. C’è tempo, tra due anni chissà che cosa ne sarà di tutti noi. Ma attenzione, la pandemia non è affatto un alibi per procrastinare; al contrario, la recessione aumenterà a dismisura i crediti in sofferenza, mari e inesigibili.

 
 Il Monte dei Paschi  ne ha appena collocati per 8 miliardi di euro alla Amco (Asset management company), la società del Tesoro, ed è essenziale che non si appesantisca di nuovo. In Borsa vale appena un miliardo e 260 milioni di euro, quindi ha bisogno comunque di capitale fresco mentre pendono sul capo anche le spese conseguenti al processo intentato ad Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. Un codicillo non da niente (si è scritto che andrebbero accantonati due miliardi). 

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Il paradosso si fa più cogente e offre il destro al Movimento 5 Stelle che preme affinché il governo faccia marcia indietro con Bruxelles, ci metta i soldi e si tenga la banca. Magari con l’ingresso di qualche mano amica che si può trovare dalle parti della onnipresente Cassa depositi e prestiti. Il percorso delineato da Roberto Gualtieri, invece, punta a un matrimonio con un buon partito. Anche se dovrà comunque fornire la dote, potrebbe mettersi in regola con le norme europee e sgravarsi una volta per tutte di un onere gravoso: se calcoliamo anche il futuro aumento di capitale e i non performing loans girati alla Amco, la mano pubblica si è impegnata per oltre 16 miliardi di euro. 


Sono circolati diversi potenziali pretendenti, ma alla fine il governo ha rivolto le sue avance alla Unicredit. L’amministratore delegato Jean-Pierre Mustier ha storto il naso: le nozze con Mps così come con altre banche italiane non fanno parte della sua strategia. Ha in mente ben diversi sposalizi, lui, per esempio in Francia con la Société Générale o comunque in Europa (si parla di Commerzbank). Finora ha venduto molti gioielli di famiglia e non ha comperato nulla. Ora vorrebbe creare una sorta di holding con una diramazione italiana quotata a Milano e una germanica quotata a Francoforte nella quale collocare le attività estere. Tuttavia se Roma chiama, Mustier non è così scortese da non rispondere. 
I pour parler informali hanno fatto emergere una condizione: Unicredit vuole lo stesso trattamento usato con Intesa Sanpaolo per le banche venete. Lo stato deve accollarsi i costi della pulizia o del risanamento che dir si voglia. 


Torniamo così al punto di partenza e scendono in campo i grillini sventolando il “comma 22”. Il M5s non vede di buon occhio una cessione a Unicredit, semmai un rafforzamento su base nazionale (perché no la Popolare di Bari da poco salvata?). Siamo in un cul de sac. Il 31 ottobre il Sole 24 Ore ha scritto che la fusione prende corpo. Il 3 novembre Milano Finanza ha sgonfiato le voci. 


Mentre la Repubblica ha escluso qualsiasi matrimonio a breve. Ieri il consiglio di amministrazione della Unicredit ha insediato come presidente Pier Carlo Padoan; sì, l’ex ministro dell’Economia che ha nazionalizzato “a tempo” l’istituto senese (sempre ieri si è dimesso dalla Camera dove era entrato con il Pd). Se sarà lui a benedire le nozze c’è da attendersi un tiro incrociato da destra e da sinistra. 


Mustier del resto ha il suo da fare nel gestire i rapporti con il cda. La banca è una public company nella quale le fondazioni originarie hanno un ruolo ormai inferiore rispetto ai fondi di investimento innanzitutto americani (51 per cento), inglesi (23 per cento), europei (18 per cento dei quali solo 4 per cento italiani) i quali non disdegnano un succulento banchetto di nozze. 
Sullo sfondo del palcoscenico italico c’è un progetto più ampio che può coinvolgere le Assicurazioni Generali per creare un vero campione della finanza in grado di competere con i colossi americani i quali, dalla crisi del 2008-2010, hanno surclassato ogni concorrente europeo. Ci aveva già provato Intesa nel 2017 e non è andata. Forse bisogna attendere che passi la pandemia e tutto scorra, panta rei. 
 

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