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Lo studio

Un'unione fiscale europea, adesso, è possibile

Angelica Migliorisi

Qualcosa è cambiato. La Bce sottolinea come il fondo Next Generation Eu stia mutando l'Europa. Un passo da gigante verso la piena solidarietà transnazionale

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L’unione fiscale europea non è mai stata così vicina. E a dirlo è anche la Banca centrale europea (Bce), che durante l’ultimo bollettino mensile ha presentato uno studio condotto da Alessandro Giovannini, Sebastian Hauptmeier, Nadine Leiner-Killinger e Vilém Valenta, nel quale viene rimarcato il cambio di mentalità sulla solidarietà a livello Ue. La pandemia di Sars-Cov-2 ha costretto Bruxelles ad accelerare il processo di integrazione e il fondo Next generation Eu (Ngeu) ne sarà il fulcro. E non è prematuro, come sussurrato fra Bruxelles, Strasburgo e Francoforte, pensare che possa diventare un meccanismo permanente.

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L’unione fiscale europea non è mai stata così vicina. E a dirlo è anche la Banca centrale europea (Bce), che durante l’ultimo bollettino mensile ha presentato uno studio condotto da Alessandro Giovannini, Sebastian Hauptmeier, Nadine Leiner-Killinger e Vilém Valenta, nel quale viene rimarcato il cambio di mentalità sulla solidarietà a livello Ue. La pandemia di Sars-Cov-2 ha costretto Bruxelles ad accelerare il processo di integrazione e il fondo Next generation Eu (Ngeu) ne sarà il fulcro. E non è prematuro, come sussurrato fra Bruxelles, Strasburgo e Francoforte, pensare che possa diventare un meccanismo permanente.

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NextGen Eu è un piano imponente, senza precedenti, che consentirà alla Commissione di raccogliere fino a 750 miliardi di euro sui mercati dei capitali. Di questi, 360 saranno sotto forma di prestiti, 390 di sovvenzioni. Mentre i primi verranno erogati fino alla fine del 2026 e dovranno essere restituiti entro il 31 dicembre 2058, i secondi saranno coperti da contributi basati sul reddito nazionale lordo e da nuove risorse proprie dell’Ue. Nel complesso, si tratterà della “più grande emissione denominata in euro mai registrata a livello sovranazionale”. Nucleo dell’Ngeu è la Recovery and Resilience Facility (Rff), il cosiddetto Recovery Fund. 672 miliardi di euro per alimentare investimenti pubblici e riforme negli stati membri, con particolare riguardo ai temi della digitalizzazione e della sostenibilità. A patto di presentare agli altri Stati membri una “lista della spesa”. Ed è proprio questo il punto sottolineato dalla Bce, che porterebbe a un sistema di solidarietà univoco e comunitario.

 

L’assenza di una politica fiscale centralizzata è da sempre uno dei grandi punti deboli dell’Ue. Con il Ngeu, le cose potrebbero cambiare. Per la prima volta Bruxelles finanzia un debito molto ingente, prevedendo un contratto di indebitamento di lungo periodo e soprattutto una condivisione del rischio. Per Marcello Messori, direttore della Luiss School of european political economy, “la svolta non sta solo nel fatto che una parte del debito accentrato a livello europeo si trasforma in trasferimenti ai singoli stati membri, ma anche nella distribuzione dei finanziamenti, che non avviene sulla base del peso che i paesi hanno nell’Ue. Tutti questi elementi, nel loro complesso, rendono il NextGen Eu un primo passo verso l’unione fiscale”.

 

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L’accordo sul pacchetto dà a Bruxelles il “potere senza precedenti” di raccogliere centinaia di miliardi di euro nei mercati finanziari e allocarli tra gli stati membri come sostegno di bilancio. Un risultato storico, ma non necessariamente permanente, per ora. Qualora la situazione sanitaria lo richieda, è possibile andare oltre. Come lascia intendere l’Eurotower, mai dire mai. L’importante è iniziare la discussione. E in quest’ottica, il paper di Giovannini, Hauptmeier, Leiner-Killinger e Valenta è un ballon d’essai a tutti gli effetti.

 

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Affinché l’unione fiscale si realizzi, i trasferimenti e la solidarietà non possono essere provvisori bensì strutturati attorno a strumenti fissi. L’Ngeu, per il momento, è transitorio “per ragioni politiche”, come sottolinea Francesco Nicoli, docente di economic governance presso l’università di Gent, in Belgio. Ma non c’è da preoccuparsi: “Quando in futuro la politica sarà più rilassata, anche questo dispositivo diventerà permanente, proprio come è avvenuto in passato per quasi tutti gli altri meccanismi europei di questo tipo”.

 

Indietro non si torna, come emerge tra le righe del paper pubblicato dalla Bce la scorsa settimana. Qualora l’accordo sul pacchetto venisse approvato in via definitiva, superando il vaglio del Parlamento Ue, “il cambiamento sarebbe talmente epocale da portare senza dubbio, nel tempo, a una vera unione fiscale” continua Nicoli. Ma è presto per cantare vittoria: le fratture che nel corso degli anni hanno reso impossibile la nascita di un’unione fiscale permangono. In particolare, i contrasti tra Nord e Sud. Difficile immaginare che sia tutto sopito.

 

Il debito europeo, poi, andrà a un certo punto compensato. In che modo? E’ stato previsto che dal 2028 al 2058 i paesi membri garantiscano maggiori contributi al bilancio comunitario. Una sorta di garanzia. La Commissione europea sta però lavorando ad almeno tre proposte di tassazione autonoma: la plastic tax, che entrerà in vigore nel 2021, la digital tax, che rimane un dibattito aperto, e la carbon tax. “Se questi dossier andassero in porto, il Recovery fund si ripagherebbe da solo”, commenta Carlo Altomonte, professore di economia dell’Unione europea all’università Bocconi e membro di Bruegel (think thank politico-economico internazionale con sede a Bruxelles).

 

Una possibilità, quella delle imposte, che potrebbe andare in contrasto con interessi consolidati. “Sedimentare questo primo passo verso l’unione fiscale – precisa Messori – richiede inevitabilmente di accentrare a livello europeo anche il lato delle entrate, quindi l’imposizione fiscale. Ma vale sempre il principio “no taxation without representation”. Se procediamo passo dopo passo verso un’unione fiscale, diventerà irreversibile una qualche forma di unione politica. Inutile dire quante resistenze ci possano essere da parte di paesi come Ungheria e Polonia”.

 

Eppure, se gli stati membri non accettassero quelle imposte, allora dovrebbero pagare i contributi al bilancio. E la scelta non sarebbe delle più felici, considerando che le tasse sono “un modo per ridistribuire sul privato soldi che altrimenti dovrebbe mettere lo stato”, sottolinea Altomonte. “Le resistenze vere – precisa l’economista – verranno da Cina e Stati Uniti perché nel caso della digital tax, sarebbero gli Usa a dover pagare dei soldi, mentre sulla carbox tax toccherebbe probabilmente ai cinesi. Quindi bisognerà vedere se e quanto l’Unione europea sarà in grado di fare politica estera”.

 

A oggi il Next Generation Eu è uno strumento ibrido. Ma c’è spazio affinché diventi una presenza fissa. Dove al tempo non riuscirono i padri fondatori della Comunità europea, forse riuscirà un Coronavirus scovato a 8.700 km di distanza da Bruxelles.

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