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Non solo profitti

Sulla responsabilità sociale delle imprese il vento sta cambiando

Il mito della creazione di valore per l’azionista ha prodotto giganteschi danni: gruppi di management, remunerati da stock option, hanno massimizzato in ogni modo i propri rendimenti nel breve termine ai danni dell’azienda

Salvatore Bragantini

Fosse ancora vivo, Milton Friedman la penserebbe come nel 1970, o gli eventi farebbero mutar partito anche a un liberista come lui? Magari vedrebbe ora l’impresa per quello che è: un albero che dà frutti nel lungo termine a soci, clienti, fornitori, dipendenti e a tutti i cittadini che godono dei servizi finanziati dalle imposte societarie.

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Nel suo articolo  Friedman tralascia decenni di discussioni sulla natura dell’impresa: essa è un’entità a sé con propri interessi, o solo un fascio di contratti, assemblati per meglio perseguire il solo profitto? Egli vuol demolire l’idea di responsabilità sociale dell’impresa, che non si saprebbe come identificare e perseguire. Nel settembre 1970 gli Stati Uniti affondavano in Vietnam per timore di un’avanzata comunista senza fine; per la “teoria del domino” la caduta della tessera vietnamita avrebbe trascinato giù tutte le altre, fino alla scomparsa dell’influenza Usa in Asia (andare in Vietnam per vedere quanto fosse sballata l’idea). Per Friedman la responsabilità sociale delle imprese avrebbe aperto le porte al collettivismo, con cui gli Usa erano in guerra. Con questa specie di “Manifesto del partito capitalista”, egli suona la tromba a un esercito in via di sbandamento. Negli stessi anni, Germania, Giappone e Italia, distrutte dalla guerra perduta, si rialzavano dalle ceneri delle loro aggressioni attuando i princìpi detestati da Friedman. Gli stessi Stati Uniti, senza teorizzare nulla di simile all’ordoliberismo, allora lo attuavano in silenzio; perciò gli anni dalla metà dei 50 alla metà degli 80 sono definiti “i Trenta gloriosi”.

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Nel suo articolo  Friedman tralascia decenni di discussioni sulla natura dell’impresa: essa è un’entità a sé con propri interessi, o solo un fascio di contratti, assemblati per meglio perseguire il solo profitto? Egli vuol demolire l’idea di responsabilità sociale dell’impresa, che non si saprebbe come identificare e perseguire. Nel settembre 1970 gli Stati Uniti affondavano in Vietnam per timore di un’avanzata comunista senza fine; per la “teoria del domino” la caduta della tessera vietnamita avrebbe trascinato giù tutte le altre, fino alla scomparsa dell’influenza Usa in Asia (andare in Vietnam per vedere quanto fosse sballata l’idea). Per Friedman la responsabilità sociale delle imprese avrebbe aperto le porte al collettivismo, con cui gli Usa erano in guerra. Con questa specie di “Manifesto del partito capitalista”, egli suona la tromba a un esercito in via di sbandamento. Negli stessi anni, Germania, Giappone e Italia, distrutte dalla guerra perduta, si rialzavano dalle ceneri delle loro aggressioni attuando i princìpi detestati da Friedman. Gli stessi Stati Uniti, senza teorizzare nulla di simile all’ordoliberismo, allora lo attuavano in silenzio; perciò gli anni dalla metà dei 50 alla metà degli 80 sono definiti “i Trenta gloriosi”.

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Non è però da patriota che Friedman espone le sue tesi. Il management della grande impresa, sostiene, essendo nominato dagli azionisti, ne fa gli interessi: deve perciò perseguire il massimo profitto nel rispetto delle leggi. Se gli conviene inquinare l’ambiente, non solo può ma deve farlo, se non viola la legge; nel “Manifesto” Friedman solo una volta accenna al rispetto delle norme sociali “incorporate nelle sue consuetudini etiche”. Nel solo altro accenno al tema scrive: “Non ci sono valori, né responsabilità sociali se non nel senso dei valori condivisi e delle responsabilità degli individui. La società è una collezione di individui e delle comunità che spontaneamente creano”. 

Margaret Thatcher queste frasi se le annotava; prendeva le mosse la rivoluzione conservatrice che avrebbe issato al potere lei nel ‘79 e Ronald Reagan nell’80. Di lì è cresciuta la teoria della “creazione di valore per l’azionista”. Essa s’è imposta ovunque e molti Codici di governo societario lo hanno inserito nelle loro norme di autoregolamentazione. Anche quello promosso da Borsa Italiana, in una precedente edizione, dava al Consiglio di Amministrazione “l’obiettivo prioritario della creazione di valore per gli azionisti in un orizzonte di medio-lungo periodo”.  Il vento ora inizia a cambiare timidamente, forse strumentalmente. La nota lettera di BlackRock alle grandi imprese le richiama ai loro doveri verso la società; la nuova edizione del Codice di Borsa Italiana, varata a gennaio 2020, davanti al vero ostacolo sguscia di lato. Il Consiglio perseguirà il “successo sostenibile” della società, analizzando i “temi rilevanti per la generazione di valore nel lungo termine”.

Non si può riassumere qui un dibattito che impegnò alcune delle migliori teste dell’Occidente nel XX secolo. In Europa e negli Usa le due tesi contrapposte sulla natura della società si sono battute per decenni. In un intenso libretto – “The shareholder value myth”, Berrett-Koehler, 2012 – una giurista Usa morta di recente, Elizabeth Stout, demolisce i fondamenti logici dell’assunto base di Friedman. Non esiste “l’azionista” ma una miriade di azionisti ognuno con diversa natura e finalità: il management non è nominato ma si auto-nomina; nessuna legge Usa e nessuna sentenza di quelle Corti obbliga a perseguire il profitto; gli azionisti non sono veri creditori di ultima istanza, ma infliggono perdite a quanti vivono intorno all’impresa prima di subirle essi stessi, e così via. Per andare sul pratico, ricordiamo i giganteschi danni dovuti al mito della creazione di valore per l’azionista. Negli Usa, in minor misura in Europa, gruppi di management, in combutta con selezionati investitori, hanno massimizzato in ogni modo i propri rendimenti nel breve termine ai danni dell’impresa loro affidata. Remunerati da stock option che permettevano loro di fruire dei rialzi dei corsi quale che ne fosse la causa, i manager hanno soffiato sul fuoco in ogni modo: licenziando dipendenti utili all’impresa in un orizzonte temporale meno miope; riacquistando a debito azioni proprie per aumentare il profitto per azione, così rivalutando anche le loro opzioni; tagliando le spese di ricerca e sviluppo, etc.

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Marco Vitale nel suo “America punto e a capo” (Libri Scheiwiller), ricorda che nel quadriennio 1999-2002, il management di 1.045 imprese Usa con ricavi oltre i 400 milioni di dollari ha intascato, grazie alle stock option, 66 miliardi di dollari; negli stessi anni quelle imprese hanno perso tre quarti del loro valore di mercato. Nel suo “La democrazia in America” Alexis de Tocqueville descrisse l’aristocrazia industriale Usa come “una delle più dure che siano mai apparse sulla terra”, aggiungendo una profezia: “Se la disuguaglianza permanente delle condizioni e l’aristocrazia dovessero penetrare di nuovo nel mondo, si può prevedere che penetreranno da questa porta”. Questa nuova aristocrazia del denaro, ricorda Vitale, a differenza di quella storica non protegge chi da lei dipende, ma lo sfrutta e basta, conscia di un potere effimero, da sfruttare finché dura. Dall’inizio del secolo le cose sono solo peggiorate: il potere dei grandi manager, locupletati oltre ogni dire, ha piegato la società portandola, in Occidente, a gravissimi livelli di disuguaglianza la cui causa, per il premio Nobel Angus Deaton, è la perdita di potere contrattuale del lavoro (assieme al potere oligopolistico di alcune imprese). Di qui torsioni che mettono in pericolo la democrazia stessa, in ritirata ovunque, in pericolo negli stessi Usa ove un presidente in carica minaccia fuoco e fiamme se non verrà rieletto.

Fosse ancora vivo, Friedman la penserebbe come nel 1970, o gli eventi farebbero mutar partito anche a un liberista come lui? Magari egli vedrebbe ora l’impresa per quello che è: un albero che dà frutti nel lungo termine ai soci, ai clienti, ai fornitori, ai dipendenti e a tutti i cittadini che godono dei servizi finanziati dalle imposte societarie. In tale prospettiva essa è un’entità indipendente, con propri interessi, alla cui tutela è preposto il Consiglio, che deve agire nell’interesse dell’impresa stessa, non dei soci. Se per “creare valore” il Consiglio sega l’albero per vendere il legno, esso tradisce il mandato e i doveri verso l’impresa e la società tutta. Di questo dovrebbe occuparsi la Corporate Governance, non di meccanici processi tergo-protettivi. La legge consente a chi investe in società di capitali di limitare le proprie responsabilità al solo capitale investito per incentivare gli investimenti che danno benefici anche alla collettività. Se esse sono gestite solo a immediato beneficio dell’azionista, sorgeranno forti dubbi al riguardo; sarebbe un peccato.

Salvatore Bragantini, manager, ha scritto "Contro i pirañas. Come difendere le imprese da soci e manager troppo voraci"

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