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Ci salverà il profitto

Ma le imprese hanno un cuore?

Luciano Capone

Esattamente 50 fa Milton Friedman teorizzava che l'unica responsabilità sociale delle imprese è aumentare i profitti. Tra stato, ambiente, questioni sociali e spiriti animali, quello del Nobel di Chicago è un principio criticabile ma ancora attuale. Dopo mezzo secolo, abbiamo chiesto a manager e accademici di fare un tagliando alla shareholder theory.

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Le imprese hanno un cuore? A questa domanda qualsiasi attivista anticapitalista risponderebbe di no. I padroni pensano solo al profitto. Paradossalmente, è la stessa risposta che dava il più noto difensore del sistema capitalistico: Milton Friedman. “La responsabilità sociale delle imprese è aumentare i profitti” è il titolo di un articolo uscito esattamente 50 anni fa sul New York Times e che ha segnato il dibattito sulla corporate governance nei decenni a venire. Il premio Nobel per l’economia aveva sintetizzato la sua teoria in maniera ancora più brutale: “The business of business is business!”. Il principio secondo cui l’unico obiettivo di un’impresa debba essere la massimizzazione dei profitti è stato, soprattutto negli ultimi anni dopo la crisi, criticato come il manifesto di un capitalismo “senza cuore”. Friedman, che aveva un’altissima considerazione del capitalismo, probabilmente condivideva questo punto: le imprese non hanno un cuore – e quindi delle responsabilità sociali – quello ce l’hanno le persone, gli individui, cioè gli azionisti, i lavoratori, i consumatori. Le aziende hanno come obiettivo quello di fare, nel rispetto delle leggi e delle regole (quindi anche quelle ambientali e lavoristiche), quanti più profitti possibili. E’ poi compito dello stato, che ha un ruolo politico, occuparsi attraverso le imposte pagate dalle imprese di problemi sociali dopo un processo democratico. Oppure dei singoli, che usano i loro soldi per le iniziative sociali o di beneficenza che ritengono più meritevoli. Friedman aveva il gusto della provocazione intellettuale, ma anche il pregio della chiarezza sulle questioni fondamentali (un po’ come quei marxisti che badano alla struttura). Le cose oggi sono molto cambiate e un impegno su questioni che riguardano l’ambiente, il territorio e il contesto sociale in cui si opera, è richiesto esplicitamente alle imprese da investitori e consumatori. In questi casi, però, per l’impresa perseguire obiettivi di responsabilità sociale, se serve ad attirare investitori e conquistare clienti, coincide con la massimizzazione del profitto.

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Le imprese hanno un cuore? A questa domanda qualsiasi attivista anticapitalista risponderebbe di no. I padroni pensano solo al profitto. Paradossalmente, è la stessa risposta che dava il più noto difensore del sistema capitalistico: Milton Friedman. “La responsabilità sociale delle imprese è aumentare i profitti” è il titolo di un articolo uscito esattamente 50 anni fa sul New York Times e che ha segnato il dibattito sulla corporate governance nei decenni a venire. Il premio Nobel per l’economia aveva sintetizzato la sua teoria in maniera ancora più brutale: “The business of business is business!”. Il principio secondo cui l’unico obiettivo di un’impresa debba essere la massimizzazione dei profitti è stato, soprattutto negli ultimi anni dopo la crisi, criticato come il manifesto di un capitalismo “senza cuore”. Friedman, che aveva un’altissima considerazione del capitalismo, probabilmente condivideva questo punto: le imprese non hanno un cuore – e quindi delle responsabilità sociali – quello ce l’hanno le persone, gli individui, cioè gli azionisti, i lavoratori, i consumatori. Le aziende hanno come obiettivo quello di fare, nel rispetto delle leggi e delle regole (quindi anche quelle ambientali e lavoristiche), quanti più profitti possibili. E’ poi compito dello stato, che ha un ruolo politico, occuparsi attraverso le imposte pagate dalle imprese di problemi sociali dopo un processo democratico. Oppure dei singoli, che usano i loro soldi per le iniziative sociali o di beneficenza che ritengono più meritevoli. Friedman aveva il gusto della provocazione intellettuale, ma anche il pregio della chiarezza sulle questioni fondamentali (un po’ come quei marxisti che badano alla struttura). Le cose oggi sono molto cambiate e un impegno su questioni che riguardano l’ambiente, il territorio e il contesto sociale in cui si opera, è richiesto esplicitamente alle imprese da investitori e consumatori. In questi casi, però, per l’impresa perseguire obiettivi di responsabilità sociale, se serve ad attirare investitori e conquistare clienti, coincide con la massimizzazione del profitto.

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Il problema sorge quando questi obiettivi entrano in conflitto. L’impresa, o meglio il management, deve sacrificare l’obiettivo del profitto per perseguirne altri? Qui il principio chiarificatore di Friedman può essere ancora utile. Perché mentre il profitto è un valore ben visibile in un bilancio a fine anno, altri obiettivi lo sono molto meno. Basta sfogliare un qualsiasi bilancio sociale di una grande azienda per rendersi conto di avere tra le mani più una brochure pubblicitaria che un bilancio d’esercizio. La difficoltà a quantificare gli obiettivi di un bilancio sociale può creare diversi problemi e trasformarsi in un esercizio di ipocrisia. Da un lato può diventare un modo per le imprese monopolistiche o con un forte potere di mercato per giustificare e garantire la propria posizione di rendita penalizzando il dinamismo e la concorrenza del mercato. Dall’altro può diventare un modo, soprattutto per le imprese pubbliche, per giustificare e perpetuare inefficienze economiche e bilanci in rosso con motivazioni sociali, occupazionali o ambientali. A tutto questo si aggiunge che la molteplicità di obiettivi a volte contraddittori aumenta la libertà e la discrezionalità dei manager, rendendoli così meno controllabili. Questo mix può essere molto pericoloso nel contesto italiano in cui lo stato imprenditore, già molto presente, sta diventando proprietario di diverse grandi aziende in perdita di cui giustifica la nazionalizzazione con motivazioni ambientali (Ilva) o sociali (Alitalia). In questo numero monografico del Foglio – che raccoglie interventi di Luigi Zingales, Luca Enriques, Salvatore Bragantini, Franco Debenedetti e Leonardo Becchetti – ci sono anche critiche radicali alla shareholder theory di Milton Friedman.

Ma nella discussione sulla Corporate Social Responsibility bisogna ricordare che sarebbe sbagliato chiedere alle imprese risposte che spettano ad altre istituzioni. E’ questo un punto sottolineato dall’economista Raghuram Rajan, che pure suggerisce di riformare il sistema capitalistico puntando a massimizzare il valore dell’impresa (più che dei profitti). Nel suo ultimo libro, “Il terzo pilasto”, che parla proprio di come rafforzare il ruolo della comunità rispetto a stato e mercato, l’ex governatore della Banca centrale dell’India scrive che “i movimenti che chiedono alle grandi imprese di avere una ‘coscienza sociale’… rischiano di minarne la decisa focalizzazione sulla produttività, e di conseguenza il contributo fondamentale all’economia, cioè quello di realizzare un prodotto utile al minimo costo possibile e di venderlo a un prezzo conveniente, giovando in tal modo ai consumatori e creando posti di lavoro. Gravare eccessivamente le grandi imprese di compiti che in realtà dovrebbero essere svolti dalla comunità e dallo Stato – conclude Rajan – garantisce che non svolgano adeguatamente alcuno di questi compiti”.

 
Leggi il contributo di Zingales
 

 
Leggi il contributo di Luca Enriques

 

 
 

Leggi il contributo di Salvatore Bragantini
  

  
 

Leggi il contributo di Franco Debenedetti
  


 
Leggi il contributo di Leonardo Becchetti

  

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