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una visione antimonopolista

Il principio di Friedman, 50 anni dopo

È perfettamente coerente con la visione del Nobel liberista chiedersi quale sia la responsabilità sociale dei monopoli digitali come Google e Facebook. 

luigi zingales

La sua è una visione ben diversa da “l’avidità è buona” resa popolare da Gordon Gekko. Non è necessariamente contrario all’idea che gli individui o le imprese possano perseguire obiettivi sociali diversi dalla massimizzazione dei profitti monetari, ma è contrario all’idea che queste responsabilità o obiettivi diversi possano essere imposti agli azionisti da altri.

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Dalla fine del XIX secolo, il capitalismo è stato organizzato sempre più in forma societaria. Quindi, capire come le imprese dovrebbero essere gestite è essenziale per plasmare il tipo di capitalismo che vogliamo. Il dibattito tra una prospettiva incentrata sugli shareholder (azionisti) e una incentrata sugli stakeholder (portatori di interessi) risale almeno all’inizio degli anni 30, quando Adolf Berle ed E. Merrick Dodd sostenevano queste due posizioni nell’Harvard Law Review. Tuttavia, una pietra miliare cruciale in questo dibattito è stata posta da Milton Friedman che, cinquant’anni fa, scriveva sul New York Times Magazine che l’unica responsabilità sociale delle imprese sia aumentare i propri profitti. Che si amino o meno le sue argomentazioni, Friedman ha stabilito i termini del dibattito degli ultimi 50 anni.

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Dalla fine del XIX secolo, il capitalismo è stato organizzato sempre più in forma societaria. Quindi, capire come le imprese dovrebbero essere gestite è essenziale per plasmare il tipo di capitalismo che vogliamo. Il dibattito tra una prospettiva incentrata sugli shareholder (azionisti) e una incentrata sugli stakeholder (portatori di interessi) risale almeno all’inizio degli anni 30, quando Adolf Berle ed E. Merrick Dodd sostenevano queste due posizioni nell’Harvard Law Review. Tuttavia, una pietra miliare cruciale in questo dibattito è stata posta da Milton Friedman che, cinquant’anni fa, scriveva sul New York Times Magazine che l’unica responsabilità sociale delle imprese sia aumentare i propri profitti. Che si amino o meno le sue argomentazioni, Friedman ha stabilito i termini del dibattito degli ultimi 50 anni.

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Dalla metà degli anni 80 all’inizio degli anni 2000, la posizione di Friedman era dominante non solo nel mondo accademico, ma anche nel mondo degli affari. Nel 1997, la Business Roundtable proclamò che “l’obiettivo principale di un’impresa è quello di generare ritorni economici per i suoi proprietari”, sposando di fatto la tesi di Friedman. Dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008, il punto di vista di Friedman è diventato sempre più impopolare. Sulla scena politica americana, molte personalità di spicco, da Elizabeth Warren a Joe Biden, chiedono imprese incentrate sugli stakeholder. Nel mondo accademico, la British Academy ha affermato che “un’impresa deve avere una serie di scopi chiaramente definiti e allineati: gli obiettivi che persegue attivamente e i suoi contributi agli obiettivi societari o agli interessi pubblici”. Anche nel mondo degli affari, la Business Roundtable ha cambiato la sua posizione nel 2019, proclamando che “mentre ciascuna delle nostre singole aziende serve il proprio scopo societario, noi condividiamo un impegno fondamentale con tutti i nostri stakeholder”. Date le crescenti sfide alla posizione di Friedman, è giusto sfruttare questo anniversario per valutare dove stiamo in questo dibattito. A tal fine, lo Stigler Center ha avviato diverse iniziative. Per celebrare l’impatto mondiale del contributo di Friedman, lo Stigler Center ha co-sponsorizzato con la Chicago Booth University una serie di panel a livello mondiale che si sono tenuti nello scorso fine settimana. Al termine di questi panel mondiali, si è tenuta la conferenza “Political Economy of Finance” dello Stigler Center, giunta alla sua quarta edizione, dedicata al dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese.

Prima di entrare nel dibattito, tuttavia, è importante che ci troviamo d’accordo su cosa Friedman ha detto e cosa non ha detto. Prima di tutto, l’articolo sul New York Times dovrebbe essere letto insieme all’ottavo capitolo del suo libro del 1962 “Capitalismo e libertà”, a cui Friedman fa riferimento nel suo articolo. Nel libro Friedman chiarisce che solo se operano su dei mercati concorrenziali le imprese non hanno responsabilità sociale. “Chi partecipa a un mercato concorrenziale non ha alcun apprezzabile potere di alterare lo scambio, è appena visibile come entità separata, quindi è difficile sostenere che abbia una qualche ‘responsabilità sociale’”. Al contrario, “il monopolista è visibile e ha potere. E’ facile sostenere che dovrebbe assolvere il suo potere non solo per promuovere il proprio interesse, ma anche per ulteriori fini socialmente desiderabili”. Quindi è perfettamente coerente con la visione del mondo di Friedman chiedersi quale sia la responsabilità sociale dei monopoli digitali come Google e Facebook. Friedman ha sposato il punto di vista contrattualista delle imprese, l’idea cioè che le imprese siano solo un nesso di contratti liberamente stipulati dalle varie parti coinvolte. Secondo questa prospettiva, le imprese non sono diverse da un insieme di individui. Quindi, non dovrebbero avere alcuna responsabilità sociale diversa da quella dei singoli. Tuttavia, è importante sottolineare che questo non significa “nessuna responsabilità”. Infatti, alla fine del saggio sul NYT, Friedman chiarisce che le aziende hanno la responsabilità sociale di giocare secondo le regole del gioco, “vale a dire, impegnandosi in una concorrenza aperta e libera senza inganni o frodi”. Pertanto, Friedman ritiene che le aziende non abbiano solo la responsabilità legale, ma anche quella sociale di non colludere, ingannare o frodare. Questo è ben diverso dalla versione “l’avidità è buona” resa popolare da Gordon Gekko nel film “Wall Street” di Oliver Stone.

Friedman non si opporrebbe agli obiettivi contenuti nella relazione della Business Roundtable 2019, da “fornire valore ai nostri clienti” a “investire nei nostri dipendenti”, dal “trattare in modo equo ed etico con i nostri fornitori” a “sostenere le comunità in cui lavoriamo”, nella misura in cui questi obiettivi siano funzionali alla “creazione di valore a lungo termine per gli azionisti”. Questa è una semplice applicazione del principio “no taxation without representation”. Ogni deviazione dalla massimizzazione del profitto è a carico degli azionisti (shareholder), coloro che hanno i diritti in forma residuale. Quindi, deviare dalla massimizzazione del profitto è una forma di tassazione, che solo gli azionisti possono imporre a sé stessi. Altrimenti, è esproprio. Di conseguenza, Friedman non è necessariamente contrario all’idea che gli individui o le imprese possano perseguire obiettivi sociali diversi dalla massimizzazione dei rendimenti monetari. Ma è contrario all’idea che queste responsabilità o obiettivi diversi possano essere imposti agli azionisti da altre constituency. Se accettiamo una visione contrattualista delle imprese, è molto difficile non essere d’accordo con questa conclusione.

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(una versione di questo articolo è apparsa su Promarket.org)
Luigi Zingales è professore di Entrepreneurship and Finance presso la University of Chicago - Booth School of Business e direttore dello Stigler Center.
 

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