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Gli errori di Friedman sulla responsabilità sociale d'impresa

Leonardo Becchetti

Nel suo ragionamento, l'economista ignora il problema della concorrenza tra paesi nonché la nascita di una nuova leva di imprenditori interessati non solo al profitto ma anche all'impatto sociale delle proprie scelte

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La sintesi più brutale del pensiero di Friedman sulla responsabilità sociale d’impresa è nella sua arcinota affermazione che “poche tendenze culturali possono minare così radicalmente le fondamenta stesse della nostra società liberale come l’assunzione da parte dei dirigenti delle imprese di una responsabilità sociale diversa da quella di fare più soldi possibile per i loro azionisti “. La sostanza dell’argomento di Friedman è che il manager di un’azienda è lì per fare l’interesse degli azionisti che gli chiedono di massimizzare il profitto e con esso il valore delle loro azioni. Nel suo ragionamento Friedman ritiene perfettamente conciliabile la sua posizione con il raggiungimento di obiettivi di bene comune. Nella sua visione esiste una divisione del lavoro dove sono le istituzioni (e in particolare i rappresentanti dei cittadini democraticamente eletti) che devono imbrigliare gli spiriti animali delle imprese massimizzatrici di profitto su un sentiero compatibile con altri obiettivi di carattere sociale ed ambientale attraverso leggi, regolamenti e il deterrente dell’efficacia sanzionatoria contro chi non li rispetta.

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La sintesi più brutale del pensiero di Friedman sulla responsabilità sociale d’impresa è nella sua arcinota affermazione che “poche tendenze culturali possono minare così radicalmente le fondamenta stesse della nostra società liberale come l’assunzione da parte dei dirigenti delle imprese di una responsabilità sociale diversa da quella di fare più soldi possibile per i loro azionisti “. La sostanza dell’argomento di Friedman è che il manager di un’azienda è lì per fare l’interesse degli azionisti che gli chiedono di massimizzare il profitto e con esso il valore delle loro azioni. Nel suo ragionamento Friedman ritiene perfettamente conciliabile la sua posizione con il raggiungimento di obiettivi di bene comune. Nella sua visione esiste una divisione del lavoro dove sono le istituzioni (e in particolare i rappresentanti dei cittadini democraticamente eletti) che devono imbrigliare gli spiriti animali delle imprese massimizzatrici di profitto su un sentiero compatibile con altri obiettivi di carattere sociale ed ambientale attraverso leggi, regolamenti e il deterrente dell’efficacia sanzionatoria contro chi non li rispetta.

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Nel suo ragionamento Friedman fa tre errori fondamentali. Il primo lo deduciamo chiaramente da un esempio applicato alla responsabilità ambientale dove, non senza ragione, Friedman afferma che essere socialmente responsabili per il manager di un’impresa vuol dire “spendere per ridurre l’inquinamento oltre il punto di ottimo per l’impresa o quanto richiesto dalla legge per contribuire all’obiettivo sociale di contribuire positivamente alla sostenibilità ambientale.” Il ragionamento di non andare oltre l’asticella della legge potrebbe funzionare in paesi con norme ambientali severe ma non funziona certo in un’economia globale dove la delocalizzazione diventa spesso proprio il gioco di andare a cercare luoghi di produzione dove l’asticella è molto più bassa o addirittura non c’è, generando comunque danni globali che ricadono sulla testa di tutti (la pandemia credo ci faccia capire oggi meglio che in passato quanto siamo tutti interdipendenti).

 

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Il mondo ideale in cui il ragionamento di Friedman potrebbe al limite funzionare è quello del classico esempio della tassa di Pigou illustrato in tutti i manuali di economia. L’impresa che massimizza il profitto in un settore nel quale produrre implica un elevato livello di emissioni inquinanti ha interesse, per realizzare il suo obiettivo di massimo profitto, a fare più emissioni di quanto sarebbe desiderato dalla società nel suo insieme. A questo punto arriva però uno stato sceriffo che stabilisce per legge che l’impresa non può superare un certo livello di emissioni o crea una tassa proporzionale alle sue emissioni inquinanti tale da portarlo al livello di emissioni socialmente desiderate come scelta ottima. Nel mondo della tassa di Pigou l’impresa massimizza il profitto e non ha nessuna responsabilità sociale ma sono le istituzioni che con la regolamentazione o la tassa ottimale riconciliano il suo obiettivo con quello sociale.

 

L’errore di Friedman è che il mondo ideale della tassa di Pigou non esiste, soprattutto dopo l’avvento della globalizzazione. Ci sono molti paesi o zone franche dove le tasse di Pigou non esistono e quindi la sorte del paese che fissa quella regola è quella di subire processi di delocalizzazione di imprese che vanno a produrre laddove i costi ambientali sono più bassi (è questa anche in parte la sorte dell’Unione europea che alza il costo della sostenibilità ambientale con i certificati verdi e subisce il fenomeno del carbon leakage con imprese che vanno a produrre fuori dai confini comunitari, un livello globale delle emissioni che non si riduce affatto e l’Ue che perde competitività). E’ proprio il problema del carbon leakage che induce oggi l’Ue a progettare una sua capacità impositiva autonoma (con la cosiddetta border carbon tax) verso imprese che producono fuori sotto standard e vengono a esportare da noi.

 


Insomma l’errore di Friedman è che il suo ragionamento può stare in piedi in un mondo dove esiste un solo paese (niente rischio di delocalizzazione o spiazzamento) con un’istituzione benevolente, perfettamente informata e capace di valutare lo scarto tra ciò che è bene per l’impresa e ciò che è bene per la società e disegnare la regola o la tassa ottimale per riconciliare i due obiettivi. La fallacia del ragionamento è nell’ignorare il problema della concorrenza tra paesi e nel concepire l’idea di un’istituzione benevolente, perfettamente informata e perfettamente capace di agire per realizzare il suo obiettivo (anche in questo caso siamo lontani dalla realtà purtroppo).

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C’è in realtà un errore antropologico ancora più profondo dietro il ragionamento di Friedman. Gli studi più recenti sulle determinanti del senso e della soddisfazione di vita hanno dimostrato ampiamente che essi dipendono in modo cruciale dalla capacità della nostra vita e delle nostre azioni di avere in impatto e ricadute positive sulla vita di altri esseri umani (quello che chiamiamo generatività). In quest’ottica la spinta alla responsabilità sociale d’impresa nasce da una motivazione ancora più profonda e sta nascendo una nuova generazione di imprenditori “più ambiziosi” che si pone non solo l’obiettivo del profitto ma anche quello dell’impatto delle proprie scelte.

 

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Per tutti questi motivi il mondo in cui viviamo oggi è lontano anni luce da quello “ideale” di Friedman. Al punto che il fondatore e ceo del più grande fondo d’investimento del mondo (Larry Fink, ceo di BlackRock) ha recentemente affermato in una lettera indirizzata alle maggiori multinazionali mondiali che “senza dare un significato profondo alla propria azione nessuna impresa pubblica o privata può raggiungere il suo massimo potenziale. E se non lo farà finirà per perdere la legittimazione sociale dai più importanti attori sociali e, con essa, la possibilità stessa di operare. Divenendo vittima delle pressioni a breve per la distribuzione degli utili sacrificando a questo fine gli investimenti per la crescita professionale della manodopera, per l’innovazione e le spese in conto capitale necessarie per la crescita di lungo periodo. Resterà esposta alle campagne di pressione degli attivisti e ai loro obiettivi ben definiti e perseguiti con tenacia, quand’anche fossero obiettivi di visione limitata. Alla fine quell’impresa fornirà rendimenti sotto il benchmark agli investitori che hanno bisogno di quegli introiti per finanziare la loro vita dopo la pensione, l’acquisto di immobili o l’istruzione superiore”.

 

Viviamo e vivremo sempre di più in un’economia agli antipodi delle idee di Friedman anche a causa dell’urgenza dei problemi globali che stiamo fronteggiando (emergenze ambientali, pandemie) che, in mancanza di uno “sceriffo mondiale benevolente” in grado di imporre tasse di Pigou globali, richiedono la collaborazione attiva di imprese e cittadini. Non a caso oggi il voto col portafoglio dei fondi d’investimento (ora anche di BlackRock) sta ormai diventando mainstreaming, il bilancio sociale e la rendicontazione non finanziaria la prassi per tutte le grandi imprese, mentre si sviluppano nuove forme organizzative (come le benefit corporations che si prefiggono simultaneamente due obiettivi statutari di profitto e impatto sociale) che affiancano altre forme d’impresa che storicamente hanno cercato di coniugare i due obiettivi.

 

Le teorie sono mappe concettuali “semplificate” che ci aiutano a definire strategie e comportamenti quando hanno un minimo di collegamento con le coordinate della realtà che viviamo. L’idea di Friedman sulla responsabilità sociale fallisce proprio su questo punto fondamentale. In un mondo imperfetto e privo di istituzioni globali benevolenti, perfettamente informate e onnipotenti e fatto di persone che cercano generatività, soddisfazione e senso del vivere la soluzione ottimale (e quanto di fatto accade) implica che missione della responsabilità sociale e ambientale non può e non deve essere delegata ad uno sceriffo globale che non esiste diventando invece di fatto l’affascinante missione di tutti noi.
In un mondo imperfetto come quello in cui viviamo, dunque, l’opinione pubblica negli ultimi decenni ha chiesto in modo crescente alle imprese di incorporare obiettivi di responsabilità sociale e ambientale nelle loro scelte.

 

Leonardo Becchetti è economista e professore ordinario di Economia politica presso l'Università Tor Vergata di Roma

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